Cinema

Gli inizi

Nel marzo 1948 la mancata ammissione al Centro Sperimentale di Cinematografia rappresentò una cocente delusione. L’ambizione di fare della propria penna uno strumento per il cinema, da autore e non più da semplice recensore, si accompagnava ad una determinazione incrollabile. I rapporti tra le riviste di cinema e le produzioni cinematografiche erano all’ordine del giorno. Giornalisti come Gianni Puccini, redattore del quindicinale Cinema, stringevano rapporti con registi emergenti. Puccini, già sceneggiatore di Ossessione (1943) diretto da Luchino Visconti e collaboratore fedele di Giuseppe De Santis, individuò nell’amico Petri una possibile risorsa per i futuri progetti del regista di Fondi. De Santis, in costante dialogo attraverso le pagine di Cinema con i migliori autori di talento (gli emergenti Carlo Lizzani, Antonio Pietrangeli e i più maturi Michelangelo Antonioni, Umberto Barbaro, Cesare Zavattini, Ivo Perilli e Libero de Libero), nel 1951 aveva già all’attivo tre lungometraggi: Caccia tragica (1947), Riso amaro (1949) e Non c’è pace tra gli ulivi (1950) gli avevano garantito una rilevante notorietà.

Puccini si rivolse al giovane Petri all’inizio del 1951. Il 15 gennaio dello stesso anno un tragico fatto di cronaca sconvolse la capitale. Un annuncio di lavoro aveva attirato la curiosità di molte ragazze: “Signorina giovane intelligente volenterosissima, attiva conoscenza dattilografia, miti pretese per primo impiego, cercasi. Presentarsi in via Savoia 31, interno 5, lunedì ore 10-11 e 16-17”. L’indirizzo indicato, presso il quartiere Salario, diventa la meta di molte giovani aspiranti. Hanno tra i sedici e i ventinove anni. Qualcuna è accompagnata dalla madre. Roma è avvolta da un eccezionale gelo e le duecento convenute battono i denti. Il sorprendente afflusso è accolto dalla portinaia con grande sorpresa e preoccupazione. La richiesta di coinvolgere il commissariato del quartiere è vanificata dalla notizia che tutti gli agenti sono stati impiegati nella preparazione della visita di Eisenhower prevista per il mercoledì 17. Le ragazze si accalcano lungo le scale del villino che ospita la convocazione. Alle voci si accompagnano rumori e lamenti. Tra le le 10 e le 11 l’edificio è invaso da un inedito brusìo. Ad un passo dall’inizio dei colloqui, un “fragore assordante” annuncia l’improvviso crollo di due piani di scale. Tra le macerie perde la vita Anna Maria Baraldi. Molte ragazze ferite vengono condotte in ospedale dove scopriranno l’ulteriore beffa: dovranno sostenere le 2.300 lire della retta giornaliera per il ricovero.

Quando De Santis e Zavattini decidono di raccontare in un film il triste episodio raccogliendo le testimonianze delle protagoniste, Puccini suggerisce di coinvolgere Elio Petri. Il ventiduenne impiegato dell’Unità sembra la persona più adatta ad indagare sui fatti di quella tragica mattina. Petri viene ingaggiato a quattro mesi dal crollo. Fatica a convincere gli abitanti della zona, già bersagliati da decine di interviste, ma trova nelle stesse ragazze la disponibilità a raccontare struggenti storie personali. La ricerca produce ammissioni come quelle della ventiquatrenne Maria che «lotta giorno per giorno, ora per ora, per sollevarsi dalla mediocrità. Al centro della sua vita c’era solo il desiderio di avere una bella casa, e un buon marito laborioso… Tutti i suoi sogni si riducevano a desiderare che si avverassero i sogni del suo fidanzato». Tra le pieghe dell’indagine Petri riesce a far emergere le dichiarazioni più sorprendenti. «Il crollo di via Savoia – dice Carla, 23 anni – è stata la cosa più straordinaria della mia vita… l’ospedale è stata una vacanza bellissima».

Il puntuale lavoro di Petri fornisce a Giuseppe De Santis un decisivo strumento per la realizzazione di Roma ore 11 uscito nel 1952. Il soggetto e la sceneggiatura portano le firme di Cesare Zavattini, Basilio Franchina, Giuseppe De Santis, Rodolfo Sonego e Gianni Puccini. Petri, non accreditato, rimane nell’ombra.

L’esordio come autore

Nel 1952, insieme a Giuseppe De Santis, Alfredo Giannetti, Salvatore Laurani, Gianni Puccini e Cesare Zavattini, Petri firma la sua prima sceneggiatura. Il film, Un marito per Anna Zaccheo, è un dramma sentimentale diretto dallo stesso De Santis. La storia, ambientata a Napoli, racconta le complicate vicende della bella Anna (Silvana Pampanini) costretta a rinunciare al matrimonio con il marinaio Andrea Grazzi (Massimo Girotti) dopo essere stata compromessa dal vile dottor Illuminato (Amedeo Nazzari). L’episodio innesca una catena di disgrazie: l’ostilità della famiglia, la ricerca di un matrimonio “riparatore”, l’abbandono delle ambizioni come modella, il tentativo di suicidio, la precarietà materiale. L’impegno sociale del film si concentra sull’identificazione del ruolo della donna nella società dei primi anni Cinquanta. La ricerca dell’emancipazione dalla famiglia, sentimentale ed economica, le aspirazioni professionali e il disagevole scontro col bigottismo perbenista sono i tratti distintivi di un racconto che mira a colpire le resistenze di una società acerba e carica di antichi pregiudizi.

Così Petri raccontò la genesi del film: «Mimì Forges Davanzati aveva una storia di Alfredo Giannetti e Salvatore Laurani che si chiamava Una corona per Anna Zaccheo. Mentre Gianni Puccini e io scrivevamo il soggetto per Giorni d’amore e stavamo tra Gaeta e Fondi, Zavattini, De Santis, Giannetti e Laurani scrivevano a Napoli un nuovo trattamento di questa Una corona per Anna Zaccheo. Da ultimo, anche Puccini e io li raggiungemmo e lavorammo in un albergo dove passammo un periodo meraviglioso, perché all’epoca Napoli era una città insieme affascinante e ripugnante. Credo, almeno pressapoco, che Forges Davanzati avesse questo soggetto per la Pampanini e che così lo offrì a De Santis, il quale non era riuscito a fare il suo film sull’occupazione delle terre in Calabria. De Santis lo accettò perché gli pareva interessante, e anzi lo caricò di molti altri significati, perché gli piaceva fare un film su una donna oggetto e lo chiamò Un marito per Anna Zaccheo».

Al fianco di De Santis

Con Giorni d’amore (1954) De Santis torna ai fasti del neorealismo in ambiente rurale. È il Sud pontino, la terra d’origine del regista, ad accogliere la storia sentimentale tra Angela (Marina Vlady) e Pasquale (Marcello Mastroianni). La fuga dei due giovani contadini, pensata per ovviare alle spese della cerimonia nuziale sognata dalle rispettive famiglie, scatena un turbinio di eventi accidentali.

La collaudata equipe formata da Elio Petri, Gianni Puccini e Giuseppe De Santis firma, insieme al poeta Libero de Libero, il soggetto e la sceneggiatura. 

Nel 1954 Giuseppe De Santis, Elio Petri e Gianni Puccini si ricongiungono a Zavattini per sceneggiare Donne proibite di Giuseppe Amato.

Il 1954 è per Petri l’occasione per esordire nella regia. Nasce un campione è un cortometraggio di dieci minuti ambientato in Romagna, che indaga sulla crescita e sulle ambizioni dei ragazzi che sognano di diventare campioni di ciclismo. Il breve filmato, accompagnato dalla voce fuori campo dello speaker radiofonico Corrado Mantoni, è co-sceneggiato da Tonino Guerra che appare nei titoli di testa col nome di Antonio. Petri indaga tra le psicologie ed i sogni dei potenziali campioni del futuro. Il corto, presentato dalla Minerva Film e prodotto dalla Sodutt, vede Angelo Baistrocchi alla fotografia, Alberto Carusotti al montaggio e Carlo Innocenzi alle musiche. Le immagini si aprono al dodicesimo chilometro della Via Emilia.

Nella seconda parte del 1955, De Santis aveva coinvolto Petri nel soggetto e nella sceneggiatura del suo nuovo film Uomini e lupi. Al progetto collaborarono Gianni Puccini, Tonino Guerra, Cesare Zavattini, Tullio Pinelli e Ivo Perilli. C’erano tutte le condizioni per centrare un nuovo capolavoro. Il contesto misterioso e selvaggio è quello delle località aquilane di Scanno, Pescasseroli e la frazione di Frattura Vecchia. Nel racconto del film questi luoghi vengono mutuati nell’immaginario paese di Vischio. Durante la lavorazione del film, avvenne anche il noto definitivo litigio tra il regista e il produttore Goffredo Lombardo, il quale, non contento dell’introspezione psicologica della vicenda e desiderando invece una storia in stile western, intervenne di persona tagliando ben diciotto minuti di pellicola nel tentativo di rivitalizzare la trama: De Santis la prese male e disconobbe l’opera nella versione finale.

I fedelissimi Elio Petri, Gianni Puccini e Tonino Guerra non abbandonarono l’amico. Lavorarono con lui alla sceneggiatura di La strada lunga un anno, il nuovo film di De Santis. Il regista, rimproverato di insistere nei suoi affreschi documentaristici e di non saper contenere le sue “ossessioni” sociali, non riusciva a trovare i finanziamenti per girare. L’ostilità delle case di produzione italiane nei suoi confronti rese complicatissima la ricerca di fondi. L’esposizione politica di Peppe fu visibile quando si rivolse insistentemente agli ambienti del Pci per un sostegno concreto. Insieme al letterato Mario Socrate, entrò nello staff degli sceneggiatori anche Maurizio Ferrara, per anni segretario particolare del leader comunista Palmiro Togliatti e commentatore politico all’Unità. Probabilmente fu proprio Ferrara ad attivarsi per ottenere i decisivi finanziamenti dalla jugoslava Jadran Film. Si vociferava che le ingenti somme messe a disposizione per girare la pellicola fossero il prodotto di una mediazione procurata da alcuni membri del Partito che si erano spesi in prima persona per la causa. La lavorazione della pellicola, iniziata nel 1957, si concluse all’inizio del 1958. 

Verso gli anni Sessanta

Nel 1958 Petri aveva confezionato il suo secondo cortometraggio, I sette fratelli. La sceneggiatura portava le firme di Cesare Zavattini, Luigi Chiarini e Renato Nicolai che è l’autore dei testi letti dallo speaker Renato Cominetti. Dopo i titoli di testa compare la dicitura «Questo documentario è dedicato alla memoria dei sette fratelli Cervi, uccisi dai nazifascisti agli albori della Resistenza, il 28 dicembre 1943 a Reggio Emilia».

Durante la preparazione di La strada lunga un anno, la casa di produzione jugoslava Jadran Film chiese a Petri di partecipare alla sceneggiatura – già approntata da Ivo Braut, Slavko Kolar e Stjepan Perovic – di un altro affascinante progetto cinematografico. Si trattava di Il treno senza orario (Vlak bez voznog reda), film affidato al regista esordiente Veljko Bulajić che, a Roma, era entrato in contatto con Petri già all’epoca della sua iscrizione al Centro Sperimentale di Cinematografia. Il film, uscito nel ’59, sarà tra i finalisti per la Palma d’Oro a Cannes. Nello stesso anno Pier Paolo Pasolini coinvolge Petri in un progetto curioso. L’idea è quella di rappresentare la realtà dei cosiddetti “teddy boys”. Il mito londinese dei ragazzi con giacche western e bizzarri ciuffi in testa viene esportato in Italia. A Milano hanno le sembianze di bulletti rissaioli con i giubbini in pelle. A Roma sono ragazzetti sfaccendati, vestiti alla moda, che passano dai bar alle scorribande cittadine in cerca di facili guadagni. Petri viene incaricato di stendere il soggetto e di sceneggiarlo con Tommaso Chiaretti, Franco Giraldi e Leopoldo Savona, cui verrà affidata la regia.

Di ambientazione siciliana è, invece, Vento del sud. Lo sta approntando lo sceneggiatore messinese Enzo Provenzale, amico di Francesco Rosi con il quale aveva già realizzato La sfida, un drammatico affresco della Napoli del dopoguerra, stretta tra le improvvisazioni esistenziali e i traffici della camorra. Provenzale – che nel 1951 si era reso famoso per i dissidi con Fellini sul set de Lo sceicco bianco, dove lavorava come direttore della produzione – commissionò la sceneggiatura ad Elio Petri e Armando Crispino, collaboratore di Antonio Pietrangeli. Per Petri è l’occasione di approfondire l’inedito tema della logica mafiosa. La pellicola, terminata nel 1960, venne prodotta da Franco Cristaldi per la Lux Film. Enzo Provenzale firmerà la sua unica regia prima di tornare alla sceneggiatura per Francesco Rosi (Salvatore Giuliano del 1962 e Le mani sulla città del 1963). 

Il nuovo incontro tra Petri e Pasolini avviene a pochi mesi dall’uscita di Le notti dei teddy boys. Lizzani ha deciso di portare sul grande schermo la vicenda di Giuseppe Albano, delinquente comune e importante esponente della Resistenza romana, detto il “Gobbo del Quarticciolo” per una deformazione vertebrale. ll film esce col titolo di Il gobbo nel 1960.

Per Petri il 1960 è un anno prolifico. L’amico Gianni Puccini lo vuole con sé nella realizzazione di una commedia, L’impiegato. Elio firma il soggetto e la sceneggiatura insieme a Puccini, Tommaso Chiaretti e Nino Manfredi che è il protagonista del film. Petri e Ricci compaiono nei titoli di testa anche in veste di collaboratori alla regia. Nella stessa capitale, ancora avvolta nel clima dei Giochi della XVII Olimpiade e travolta dai fasti felliniani di La dolce vita, Elio Petri torna ad affiancare Giuseppe De Santis nella realizzazione di La garçonnière (1960). La collaudata sintonia con Roberto Gerardi, Franco Giraldi e Tonino Guerra produce una sceneggiatura dai toni drammatici. Raf Vallone ed Eleonora Rossi Drago danno vita alla tragedia familiare tra il costruttore Alberto Fiorini e la moglie Giulia.

Esordio alla regia: L’assassino (1961)

Nel clima “modernista” delle Olimpiadi romane il mondo cinematografico si era rilanciato con uno sguardo più acuto sulle trasformazioni della società del benessere. Accanto all’irriverente immersione di Anita Ekberg nelle acque della fontana di Trevi, presero vita le annotazioni esistenziali di un cinema lucidamente allusivo e amaramente malinconico. Uscirono nel corso dell’anno L’avventura di Michelangelo Antonioni, Era notte a Roma di Roberto Rossellini, Il mattatore di Dino Risi, Tutti a casa di Luigi Comencini, Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, Adua e le compagne di Antonio Pietrangeli, Due donne di Vittorio De Sica, Il vigile di Luigi Zampa, La giornata balorda di Mauro Bolognini e il debutto di Damiano Damiani, Il rossetto

A raccogliere le fibrillazioni di un enigmatico cambiamento sociale è proprio Elio Petri. Per il suo esordio alla regia con L’assassino ha contattato il produttore Franco Cristaldi, che da quindici anni ha fondato la Vides Cinematografica ed è attento alla promozione di giovani talenti. Ha già costruito la sua piccola fortuna sostenendo prodotti di assoluto valore: Un eroe dei nostri tempi (1955) e I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli, Le notti bianche (1957) di Luchino Visconti, La sfida (1957) e I magliari (1959) di Francesco Rosi, L’uomo di paglia (1958) di Pietro Germi, Kapò (1960) di Gillo Pontecorvo e Audace colpo dei soliti ignoti (1960) di Nanni Loy. Il cinema d’autore lo seduce. Nel 1961 sta già finanziando Fantasmi a Roma di Antonio Pietrangeli. Lo ha colpito uno script inviato da Petri: L’assassino. È la storia di un losco affarista di oggetti di antiquariato che cerca di arricchirsi in barba ad ogni regola morale. Il suo opportunismo è sfrontato in ogni ambito. Quando la polizia lo interroga per l’omicidio della sua amante, l’uomo sperimenta l’alienante condizione del sospettato e la triste sorte che sembra cadergli addosso come una nemesi riparatrice. L’ambientazione teatrale si presta allo scopo. Nel duro confronto il commissario alterna espressioni rassicuranti e repentini cambi di tono. Nel braccio di ferro psicologico, l’interrogato si abbandona a continui flashback che lo pongono di fronte alla sua stessa condotta meschina. Sembra una catartica presa di coscienza dei propri eccessi, del confine superato. Tutta la sceneggiatura, firmata con Tonino Guerra, Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa, è giocata sul confronto tra due generazioni impersonate dal duo Mastroianni-Randone, l’irriducibile truffatore e l’intransigente uomo di Stato.

I giorni contati (1962)

A distanza di un solo anno, Petri ha in tasca un nuovo soggetto, I giorni contati. Lo conserva già da tempo e tra i tanti esercizi di scrittura è certamente quello cui è più affezionato. Secondo molti derivava da una vicenda familiare. Lo sceneggiatore Berto Pelosso, collaboratore di Elio, spiegò: «Credo che, per I giorni contati, un’ispirazione di base fosse il rapporto con suo padre che a un certo punto aveva smesso di lavorare. Elio aveva capito questo problema di suo padre che in quel momento non se la sentiva più».

Petri rifinì il soggetto con Tonino Guerra e coinvolse per la sceneggiatura il livornese Carlo Romano, che aveva una straordinaria capacità nel cogliere gli accenti grotteschi della comicità involontaria.

I giorni contati è tutto affidato alla quieta ribellione dello stagnaro Cesare che, dopo aver assistito alla morte da infarto di un passeggero del tram, traduce lo shock in una profonda riflessione sulla propria esistenza. La risposta naturale è quella di abbandonare il lavoro e ricercare nuovi piaceri, tra lo sbigottimento dei suoi compagni di vita. L’ambizione del regista è chiara: «Il mio film è una protesta contro l’ossessione della vita moderna: tutti corrono, s’affannano, hanno fretta, una fretta di arrivare… ma a che cosa? A una triste vecchiaia carica di rimpianti per ciò che si è sacrificato e perduto». Il progetto, già puntualmente definito, fu presentato alla Titanus: «Quando proposi il film a Goffredo Lombardo, per il ruolo del protagonista feci una rosa di tre nomi: Totò, Jean Gabin, Salvo Randone. E lui scelse Randone perché, evidentemente, era l’attore che costava meno». In realtà Petri nutriva grande stima per l’attore e la tentazione di coinvolgere Totò era legata ad un antico amore di gioventù: «Pensai a Totò non solo perché lo vedevo giusto per il ruolo, ma perché Totò è stato praticamente il mio maestro di estetica. All’epoca in cui da ragazzo facevo la claque, avevo visto sette volte la rivista Che ti sei messo in testa». Tra Elio e Salvo l’intesa era già forte come ricorda Paola Pegoraro Petri, moglie di Elio: «I due sul set si scambiavano poche parole e molti sguardi, molti monosillabi, molti cenni del capo. “Ma vi capite?” chiedeva perplesso il produttore Goffredo Lombardo. I due si capivano e continuarono a capirsi per molti altri film».

Il maestro di Vigevano (1963)

«Dopo I giorni contati – racconta Petri – mi trovavo senza lavoro in quanto il film aveva incassato assai poco: la produzione non aveva molto interesse a fare film con me. Restai tutto l’inverno senza lavoro; mi era difficile anche materialmente andare avanti così. Dino De Laurentiis imprevedibilmente mi offrì di fare un film con Alberto Sordi. Ho sempre amato Sordi come comico, credo sia davvero una “maschera” italiana straordinaria. Volli dunque misurarmi con Sordi. Con Age & Scarpelli ci mettemmo a pensare ad una idea di film per lui».

Il lavoro produsse una ricca sceneggiatura interamente funzionale alla versatilità di Sordi: «Era un film comprendente dai quindici ai sedici episodi tutti improntati alla mostruosità e al cinismo dei personaggi della piccola e media borghesia. Era un film politico molto forte. I personaggi erano, in un certo senso, storditi ma non alienati. Raccogliemmo sedici storie e Sordi doveva interpretare sedici mostri: è del resto portato alla caricatura espressionista del piccolo-borghese. Ma il film era politico, c’era Agnelli, c’era il chirurgo». 

Quando Petri, Age & Scarpelli avevano ormai approntato le storie da affidare al versatile comico romano nacquero i primi contrasti con De Laurentiis. Anche Sordi era spaventato dal fervore “politico” delle caricature che avrebbe dovuto interpretare. Per non compromettere gli investimenti già approntati e rischiare il rinvio ai tribunali, De Laurentiis si mosse subito, dirottando Sordi, Petri, Age & Scarpelli sulla realizzazione di Il maestro di Vigevano e affidando la riscrittura de I mostri a Dino Risi, coadiuvato da Agenore Incrocci, Ruggero Maccari ed Ettore Scola.

Il maestro di Vigevano prese vita tra le improvvisazioni di Sordi, i disappunti di Mastronardi e l’ostilità di un intero paese pronto ad adire le vie legali. L’architettura narrativa di Petri ricalca solo in parte lo stile letterario di Mastronardi. Il regista stimava sinceramente lo slancio poetico e malinconico del bizzoso romanziere lombardo. Ma la distanza culturale fra le ambizioni della borghesia lombarda e gli spregiudicati “impicci” della tradizione capitolina era palpabile. Il regista romano doveva farsi interprete di una periferia produttiva che non aveva mai conosciuto. Una linea sottile univa i reciproci talenti del cineasta smaliziato e dello scrittore nevrotico. Gestire la “romanità” conclamata di Sordi e conferire lo spirito lombardo ad un’attrice londinese non fu certamente facile.

Traversie giudiziarie: Nudi per vivere (1963)

Nel corso del 1963, Petri collabora con Giuliano Montaldo e Giulio Questi, estroso regista bergamasco formatosi come aiuto di Valerio Zurlini e Francesco Rosi e attore in La dolce vita e Signore & signori di Pietro Germi.

Petri, dopo le faticose riprese di Il maestro di Vigevano, raccolse l’invito come occasione per concedersi un piacevole divertissement. Si trattava di realizzare un bizzarro racconto documentaristico sulle stranezze della vita notturna parigina. Il risultato finale passò sotto il nome di Nudi per vivere e fu diretto dallo sconosciuto Elio Montesti, nome uscito dalla combinazione di Elio, Montaldo e Questi. La pellicola, di 93 minuti, raccolse scene “rubate” tra i locali più trasgressivi della capitale francese, dove comparivano anche noti personaggi come Chet Baker e Nancy Holloway. Sulle note di Ivan Vandor e la voce fintamente moralista di Giancarlo Fusco, prese vita un curioso contenitore di innocue provocazioni che avrebbe potuto assicurare un facile e veloce guadagno. La pellicola, prodotta da Lorenzo Pegoraro, venne realizzata con due piccole troupe formate da un operatore, un capo elettricista, un capo macchinista e qualche elettricista occasionale di supporto.

Dopo una prima proiezione a Catania, il film, già falcidiato dai tagli della censura ministeriale, fu segnalato e sequestrato in seguito ad un sommario e lapidario giudizio che lo segnalava come un prodotto “immorale e dannoso”. Il 4 aprile 1964 la Procura della Repubblica di Roma recepì l’ordinanza emessa dal medesimo organo di Palermo, con ordinanza n. 2021/64 del 7 marzo (a norma degli articoli 337 C.P.P., 528 C.P. e seguenti della legge 21.4.1962 n. 161), ordinando con massima urgenza il sequestro della pellicola su tutto il territorio nazionale.

Peccato nel pomeriggio (1964)

Il successo di I mostri di Dino Risi sancì la fortunata tradizione del film a episodi già sperimentata negli anni Cinquanta con pellicole come Accadde al commissariato di Giorgio Simonelli e Un giorno in pretura di Steno. Negli anni Sessanta la formula prevedeva commedie articolate in racconti distinti, uniti da un tema comune (il sesso e le infedeltà coniugali su tutti) e firmati da più registi. Nel 1964 uscirono, tra gli altri progetti collettivi, 3 notti d’amore, girato da Renato Castellani, Luigi Comencini e Franco Rossi, Le bambole diretto da Dino Risi, Luigi Comencini, Rossi e Mauro Bolognini e Controsesso firmato da Rossi, Marco Ferreri e Castellani.

Il produttore Gianni Hecht Lucari scritturò per la Documento Film i registi Franco Rossi, Elio Petri, Luciano Salce e Mario Monicelli da impiegare in un progetto cinematografico su soggetto e sceneggiatura di Age & Scarpelli, Ruggero Maccari ed Ettore Scola. Il film a episodi, Alta infedeltà, raccoglieva quattro storie sulle gelosie e i tradimenti coniugali e fu lanciato con lo slogan “Il film più spregiudicato, divertente, eccitante, comico dell’anno!”.

La pellicola uscì nelle sale il 22 gennaio 1964. Il primo episodio, Scandaloso, diretto da Rossi, vede Nino Manfredi nei panni di Francesco Mangini, marito ossessionato dalla gelosia per la moglie Raffaella (Fulvia Franco) ed oggetto delle attenzioni del suo presunto amante. La terza parte del film, La Sospirosa, firmata da Luciano Salce, racconta dell’ipocrita morbosità di Gloria (Monica Vitti) per il coniuge Paolo (Sergio Fantoni), tradito con il suo migliore amico Tonino (Jean-Pierre Cassel). Nell’ultima parte, Gente moderna, Monicelli affida a Ugo Tognazzi (Cesare) l’ingrato compito di cedere “carnalmente”, per un debito di gioco, la moglie Tebaide (Michèle Mercier) all’amico Reguzzoni (Bernard Blier). Elio Petri diresse il secondo episodio, Scandalo nel pomeriggio, grottesca vicenda coniugale tra Laura (Claire Bloom) e il gracile Giulio (Charles Aznavour). La donna, convinta a mettere le corna al distratto consorte, avvicinerà un uomo dall’aria stranamente “familiare”. Petri offrì la parte alla Bloom durante le riprese di Il maestro di Vigevano e definì il suo progetto come «satira affettuosa dell’antonionismo».

La decima vittima (1965)

«Dal 1962 avevo un’idea per un film di fantascienza tratto da un racconto di Robert Sheckley, però nessuno lo voleva fare. Poi piacque a Marcello Mastroianni e alla fine Ponti accettò. Non voleva fare un film con me né un film di fantascienza, faceva delle smorfie orrende, ma voleva fare un film con Marcello». 

Così Petri amava raccontare la genesi di La decima vittima, il film della sua quarta regia. In origine Elio si era appassionato al racconto Fiori per Algernon (1959) di Daniel Keyes, vincitore del premio Hugo per il miglior racconto breve nel 1960. Il testo di Keyes narra in chiave fantascientifica il riscatto personale dell’umile Charlie Gordon. Il giovane, limitato dalle sue modeste capacità intellettive, viene convinto dall’insegnante Alice Kinnian a sottoporsi ad un trattamento innovativo che assicura un prodigioso accrescimento delle facoltà cognitive. Il miracoloso meccanismo di crescita intellettiva è assicurato dalla sperimentazione effettuata sul topo Algernon. 

Petri era conquistato dal fascino di un racconto che metteva insieme il tema della depressione, quello del pregiudizio sociale e le atmosfere di un intrigante quadro fantascientifico. L’idea piacque anche all’amico Mastroianni. Ogni sforzo per ottenere i diritti della storia si rivelò, però, vano. L’attore americano Cliff Robertson aveva acquistato l’esclusiva e intendeva proporre il racconto come base per una sceneggiatura cinematografica. Nel 1966 Daniel Keyes avrebbe ulteriormente arricchito e rivisto il testo. Due anni più tardi la storia, sceneggiata da Stirling Silliphant, sarebbe diventata la trama del film I due mondi di Charly (Charly) prodotto e diretto da Ralph Nelson. La pellicola assicurerà a Cliff Robertson le gioie per l’Oscar al miglior attore protagonista.

Il regista romano ripiegò su La settima vittima (The Seventh Victim) di Robert Sheckley, pubblicato nel 1953 e incluso nell’antologia Le meraviglie del possibile (Einaudi, 1959) curata da Sergio Solmi e Carlo Fruttero: il libro conteneva ventinove racconti di fantascienza e ne faceva parte anche Fiori per Algernon. La settima vittima prefigurava un futuro in cui le inclinazioni violente e belligeranti sarebbero state addomesticate con l’isituzione della “Catarsi Emotiva”, organismo cui un adulto può iscriversi. Tale adesione avrebbe concesso il diritto di uccidere, nei ruoli alternati di cacciatore e vittima. Il pubblicitario Frelaine sta eseguendo la sua settima caccia ai danni di Janet Pratzig, che non oppone alcuna resistenza. Quando l’uomo se ne innamora, archivia ogni velleità di vittoria e le chiede di sposarlo. Solo allora Janet sfodera la sua astuta tattica di difesa e lo uccide.

Nel 1964 Petri si attrezzò per trarne una sceneggiatura cinematografica: «Da principio il mio fiancheggiatore fu Tonino Guerra, poi entrò nel team Ennio Flaiano». Non fu chiaro l’apporto dell’uno e dell’altro. Con Guerra c’era un’amicizia consolidata attraverso la condivisione in altri progetti già realizzati. Il sagace scrittore pescarese veniva dalle trionfali collaborazioni per , Signore & signori e Giulietta degli spiriti e dal litigio insanabile con Federico Fellini. La sceneggiatura definitiva di La decima vittima conterrà una serie di gustose battute ascrivibili al genio di Ennio: «Flaiano con me – ricorda Petri – è stato proprio un uomo delizioso, incantevole. Trascorrevamo ore meravigliose senza far niente e i temi della conversazione erano la vita, il tempo che sfugge, la società, la letteratura: tutto, ma non il lavoro. Il lavoro per lui era l’ultimo degli argomenti. E questo lo rendeva anche più piacevole».

La decima vittima nacque tra mille difficoltà. Carlo Ponti, come Dino De Laurentiis, non amava assecondare le velleità estetiche dei registi ambiziosi. Il mito americano del prodotto di facile consumo lo avvicinava ad una concretezza spietata. Gli interessava la forte caratterizzazione brillante delle storie e la loro vendibilità sui mercati esteri.

Petri voleva cimentarsi in una prospettiva di proiezioni futuriste cariche di caratterizzazioni psicologiche ed eccentriche dissacrazioni politiche. Era il terreno ideale per sfruttare la “mollezza” di Mastroianni in una chiave disperante e ironica, l’atmosfera migliore per ammantare Roma di vaghe aspirazioni moderniste in mezzo alle monumentali ipocrisie del qualunquismo borghese. Ponti non perdeva occasione per far passare sotto il termine “vaccata” le tracce di sceneggiatura che il suo regista gli sottoponeva. «Non voleva fare un film con me – raccontava Petri – né un film di fantascienza, faceva delle smorfie orrende, ma voleva fare un film con Marcello. Lavorai per un anno e mezzo alla sceneggiatura e giunsi alla fine stremato, sempre con questo Ponti che mi metteva i bastoni fra le ruote». Il produttore insisteva per ottenere una vera e propria commedia, così come aveva garantito ai suoi acquirenti americani. Anche Mastroianni ricordava la rigida determinazione di Ponti nello «spingere perché il film fosse più umoristico, e questo creò dei grandi disagi fra Petri, me e Tonino Guerra. Ci fu un momento in cui Elio credette addirittura che noi avessimo fatto combutta a suo danno e invece non era vero. […] Il fatto era che Ponti aveva assicurato ai distributori americani un film brillante. E così il film, pur conservando delle qualità notevoli, fu tradito nella sua stessa essenza ed è l’esempio classico di quanto un produttore sbaglia perché crede di saperla più lunga di un regista intelligente». 

In realtà Ponti – convinto che Petri, Mastroianni, Guerra, Berto Pelosso e il subentrato Giorgio Salvioni si fossero coalizzati per determinare l’orientamento del film in chiave satirico-politica – si rivolse maldestramente al ventinovenne Ernesto Gastaldi, autore di racconti di fantascienza e sceneggiatore di L’amante del vampiro (1960) diretto da Renato Polselli. Il giovane si era fatto le ossa accanto a Paolo Heusch, Riccardo Freda, Mario Bava e Antonio Margheriti. Firmava le sceneggiature come Julian Berry, Julyan Perry ed Ernst Gasthaus. Gastaldi riscrive la sceneggiatura e la caratterizza con la sua impronta macabra e orrorifica. Ponti intuisce di aver commesso un immenso errore e ingaggia Garinei e Giovannini per conferire al film un taglio più brillante ed accontentare quanto richiesto da Joseph E. Levine. 

L’ennesimo tentativo di ritoccare i testi non fu convincente. Il produttore di Magenta – che quell’anno aveva a libro paga Mastroianni già per Casanova ’70 e Oggi, domani, dopodomani e aveva investito una fortuna per assicurarsi Ursula Andress cercò di rimediare sottoponendo il film ad una spietata serie di tagli e imponendo un finale rinnegato da tutti gli autori. L’idea di Petri di concludere la vicenda in Africa con un epilogo del tutto diverso fu scartata in ragione dei costi. Nell’intervista del 27 febbraio 1967 a Stampa Sera il regista si abbandonò ad un’ammissione amara: «Sapesse come sudai per convincere il produttore e quanto penai per dovermi adattare a quell’orribile finale, pagliaccesco, ma non ce la facevo più a lottare contro tutti». 

Così il regista aveva illustrato il nuovo progetto: «La decima vittima sarà una satira del mondo attuale, una trasposizione allegorica di aspirazioni e di inquietudini dell’oggi dove verranno fustigati certi costumi, la ferocia dei rapporti personali e collettivi, l’arrivismo sociale dei tempi moderni». «Nasce una sceneggiatura pop-collage – precisa Alfredo Rossi – sull’americanismo, ovvero non sull’America (la quale presta semplicemente la sua facciata) ma sulle crudeltà dei rapporti interpersonali in un grande paese dalla tecnologia e dal capitalismo avanzato». Il taglio dei finanziamenti rese impossibili gli esterni negli Usa. Tutto fu spostato a Roma. 

A ciascuno il suo (1967)

Un produttore di piastrelle di Sassuolo, Giuseppe Zaccariello, aveva da poco fondato la Cemo Film Spa con sede a Roma in via Siacci 38. Lo aveva colpito il romanzo poliziesco A ciascuno il suo, pubblicato nel 1966 da Einaudi. Deciso a lanciarsi nel cinema che contava, Zaccariello incontrò Petri e gli propose la trasposizione cinematografica, ricevendo il consenso del regista. Trattandosi di un’ambientazione “meridionale” Elio pensò di contattare Ugo Pirro, conosciuto già ai tempi di Achtung! Banditi! (1951) diretto da Carlo Lizzani e per le collaborazioni che lo sceneggiatore salernitano aveva stretto con Giuseppe De Santis (Uomini e lupi e La garçonnière, tra le altre). Petri era entusiasta del progetto. Capitava proprio in una stagione di ripensamenti, di rinnovamenti necessari, di ravvedimenti obbligatori.

«Ero convinto – raccontò il regista – che bisognava cominciare a fare dei tentativi di cinema esplicitamente politico. Per quindici anni la censura democristiana non aveva lasciato passare nemmeno un fotogramma politico. In quegli anni era sopravvenuto in me un senso di stanchezza e di inutilità delle cose che facevo. Fino ad allora in qualche modo ero stato un regista che si divertiva. Da quel momento in là mi fu chiaro che non c’era più da divertirsi perché appariva evidente fin da allora dove si sarebbe andati a finire. Il comportamento della classe dirigente, la distruzione di un’Italia contadina per creare una finta Italia industriale e americana, la trasformazione delle nostre bellissime città in agglomerati di dormitori e garage, aperti all’insaziabile avidità della speculazione edilizia, il trionfo delle filosofie del profitto, erano segni di regressione paurosa verso la barbarie. Devo dire a onor del vero che siamo stati in parecchi a prevedere come sarebbero andate a finire le cose. Che cosa è stato il cinema italiano se non un ostinato segnale di malessere? Che non era soltanto un malessere esistenziale, assoluto, ma legato alle condizioni storiche in cui eravamo costretti a vivere. Per quanto mi riguarda io sentii il bisogno di cambiare, di sporcarmi le mani, di “trasformarmi in factotum”, che è quello che qualcuno dei fans de I giorni contati mi rimproverava. Il libro di Sciascia accese la scintilla di un interesse concreto: il clima politico dell’Italia meridionale vi era dipinto con la chiarezza, le forze in gioco, Chiesa e Dc, vi erano chiamate per nome. Il ruolo dell’intellettuale vi era delineato con estrema intelligenza e ironia (questo ruolo astratto e in un certo senso castrato: in una civiltà industriale gli intellettuali sono i castrati, staccati come sono dalla realtà, obbligati a vivere i problemi della società da falsari, attraverso la mediazione della cultura). Mi attirava poi anche il fatto allora abbastanza nuovo che l’assassino, proprio perché è all’interno della classe dirigente, finisce per essere il vincitore, che era il rovesciamento di uno dei tabù del codice Hays. Ma soprattutto era una verità. In un film fatto in fretta lo zoom sostituisce gli obbiettivi. E poi non mi andava di limitare Sciascia a confini provinciali, volevo che nella Sicilia si individuasse un sud più vasto, come un sud dell’anima che potesse essere anche il Brasile, e questo richiedeva un’ottica meno incisiva e fredda della consueta. Come vede non mi interessava principalmente la mafia. La situazione mafiosa in sé, anche come persecuzione kafkiana, non mi ha mai attirato. La mafia in sé è un modo di fare gli affari in famiglia. La famiglia è già una mafia. La cosa che mi stava più a cuore nel film era il ritratto dell’intellettuale (Laurana), distaccato dalla realtà, umanamente, politicamente e anche sessualmente isolato. Il film è una specie di autoritratto di un intellettuale. In un certo senso anche Laurana è un mafioso: anche lui diffida dello Stato, come di tutto il resto, tranne che dell’assassino».

Ugo Pirro aveva letto le bozze del romanzo quando era ancora un dattiloscritto. «Quello di Sciascia era un giallo anche ingenuo – rivelò lo sceneggiatore – ma dava un’idea della società siciliana. Scrivemmo la sceneggiatura nella casa di Elio al villaggio Tognazzi di Torvaianica. Stavamo tutto il giorno alla scrivania. All’una andavamo a fare il bagno e poi alle tre riprendevamo il nostro lavoro. Lavoravamo così: stavamo uno di fronte all’altro, lui alla macchina da scrivere e io di fronte. Si discuteva. Quando c’erano le scene io la scrivevo a mano, poi la dettavo e nel dettarla lui la modificava. Il suo contributo era altissimo. Era proprio una sceneggiatura scritta a quattro mani. Il progetto cadde in un periodo particolare. C’erano tutti film disimpegnati. A ciascuno il suo si inserì come un “rovescio” della situazione, senza che noi avessimo fatto alcun calcolo, facevamo semplicemente quello che ci piaceva».

Il 10 marzo 1967, a due settimane dall’uscita nelle sale, Sciascia volle mandare qualche riga a Petri: «La mia previsione che avresti fatto un ottimo film, ma diverso dal libro, si è avverata. E mi piace riconfermare, in tutta sincerità, che non c’è stato tra noi alcun malinteso, né io ho avuto delusione o amarezza dal fatto di scoprire, nella sceneggiatura e ora nel film, che tu hai fatto un’altra cosa».

Un tranquillo posto di campagna (1968)

«Il soggetto di Un tranquillo posto di campagna – racconterà Petri a posteriori – risale al ’62, l’avevo scritto con Tonino Guerra, ma potei girarlo solo alla fine del ’67. In quegli anni si parlava molto dell’alienazione, tipica della ricerca antonioniana, della restaurazione neocapitalistica. Si può parlare di una vera e propria schizofrenia dell’uomo moderno. Credo, per esempio, di essere io stesso schizoide: professo idee tipiche degli ambienti della sinistra rivoluzionaria, e partecipo al sistema capitalistico, sfrutto degli operai. Non direttamente, nel senso economico, ma – e il risultato è lo stesso dal punto di vista sociologico – sul piano del privilegio, della paga. Per il momento è una faccenda solo morale, ma è una situazione da schizofrenia. Lo stesso vale per il giornalista dell’Unità che scrive delle cose secondo direttive che partono dall’alto, anche se non le condivide; lo stesso per l’operaio diviso tra la volontà di azione rivoluzionaria e l’obbligo di sostenere i ritmi del lavoro capitalistico. A mio avviso non è alienazione: è scissione, su un terreno clinico. Il protagonista del film era un pittore che lavora come si dipingeva nei tempi andati senza capire che ormai quell’arte intesa così è morta. E quando vede che i suoi quadri sono mercificati, cerca una vita diversa ritirandosi in campagna per sfuggire alla nevrosi e ricostruirsi le abitudini tipiche dei vecchi artisti. Ma nella villa c’è un fantasma, un fantasma di tempi recenti, una ragazza uccisa in guerra, e questo fantasma erotico finisce con lo stregarlo. Il fantasma è l’arte dei romantici, in un’epoca in cui invece l’unico motivo di vita è il denaro. La ragione per cui difendo Un tranquillo posto di campagna è questa: era il ritratto di un artista, di un intellettuale borghese e della sua scissione. Era un artista borghese che, almeno per quanto stava nei suoi mezzi espressivi, aveva tentato di rivoluzionare le forme, le formule, e che si trovava prigioniero del sistema della produzione in serie. Di qui la sua fuga verso i fantasmi della cultura romantica. Il film era una critica, dall’interno certo, dell’intellettuale. Insomma eravamo alle soglie del ’68, e questo è il mio ultimo prima di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, prima cioè di film che sentissi essere utili a qualcosa».

Nero e la Redgrave conobbero il misterioso fascino di Villa Cavalli Lugli in località Bresseo, nel comune padovano di Teolo. L’edificio del XVII secolo conquista lo sguardo per il corpo residenziale fiancheggiato da due lunghe barchesse porticate. All’epoca del film, prima del restauro avvenuto nel 1987, la sontuosa costruzione versava in una condizione di visibile degrado.

Per tutta la pellicola il confine tra follia artistica ed inclinazione omicida è reso sottile da una palpabile tensione che corrode ogni tono conciliante. La morbosità e la degenerazione di ogni equilibrio emotivo si annodano agli impulsi di una perentoria forza creativa. Petri riponeva grande considerazione nella fabbricazione artigianale del processo pittorico. Il mistero della morte di Wanda e la ricostruzione del suo istinto erotico si mescolano con il vigore delle pennellate e degli assemblaggi artistici del protagonista. Elio aveva creato le premesse del suo film riprendendo in 16 mm l’attività creativa di Dine in America, documentandone ogni minimo procedimento. L’eredità del suo talento gestuale fu consegnata a Leonardo Ferri. Petri gli affida lo slancio e l’intuizione di Dine esasperando il processo di imitazione con un martellante immaginario erotico. La presenza del corpo voluttuoso della contessina-fantasma che si è concessa ai suoi amanti e li ha storditi con il richiamo di una sensualità ubriacante innesca l’ambivalenza tra genio e follia. L’ossessione che pare degenerare in pazzia criminale si rivela invece il nucleo di una rinnovata capacità creativa.

Nella diciannovesima edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino (luglio 1969) la giuria premiò la pellicola con un Orso d’Argento per la miglior fotografia.

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970)

Nel cuore di una stagione palpitante di reazioni di protesta e fronti contrapposti, Elio Petri ed Ugo Pirro avevano lavorato ad un nuovo progetto. Pirro aveva scritto una sceneggiatura intitolata Indagare è una cosa meravigliosa, in cui il “normale” cittadino Eugenio Sales chiedeva di sottoporsi ad un approfondito interrogatorio da parte di un funzionario di polizia, capo dell’Ufficio Politico, per verificare se avesse infranto la legge, a sua insaputa, con i propri comportamenti privati.

L’idea iniziale fu quella di costruire un racconto in cui potessero rientrare il tema della trasgressione e quello dell’applicazione della legge. La prospettiva dell’autocoscienza in chiave psicanalitica e la definizione di ciò che costituisce il confine della libertà privata rappresentavano gli elementi fondanti di una ricerca affrontata in chiave brechtiana. Pirro racconta di aver iniziato a costruire il suo proposito narrativo dopo aver assistito ad un episodio casuale. Una sera, ritornando a casa mentre il traffico costringeva a procedere a passo d’uomo, un guidatore prepotente decise di invadere la corsia opposta per superare la fila delle auto. L’idea della trasgressione come affermazione di un potere privato conquistò la sua fantasia. 

Dal confronto con Petri, inizialmente freddo rispetto alla prima bozza del progetto, prese forma un racconto che metteva in relazione l’interesse privato con i complessi di colpa, l’ossessione del potere con la sessualità, il principio di autorità con la ricostruzione della verità. L’azzardo fu quello di riferire in capo ad un soggetto particolare tutti gli elementi di un multiforme giallo psicologico. Il protagonista doveva essere un’autorità forte, insospettabile, incorruttibile. Chi mai lo avrebbe sospettato di omicidio? Nel quadro conflittuale contraddistinto dall’eversione politica, dalle tensioni ideologiche e dalla difesa dell’ordine costituito, la grande intuizione fu quella di far commettere un omicidio ad un uomo di legge. L’irreprensibile dirigente di polizia, avviato alla promozione come numero uno dell’ufficio politico della questura, uccide lucidamente la sua amante e torna al suo ruolo di inquirente. Petri immagina di spingere l’azzardo oltre le premesse iniziali. Il poliziotto, in una sorta di delirio di potere, vorrà egli stesso sfidare la pubblica autorità e disseminare sul terreno delle indagini le prove della propria colpevolezza. L’ossessione personale, nata da un perverso gioco psicologico, aderirà alle marmoree istanze di un “superiore” primato del principio di repressione: «Noi siamo a guardia della legge che vogliamo immutabile! Scolpita nel tempo. Il popolo è minorenne, la città è malata, ad altri spetta il compito di curare e di educare. A noi il dovere di reprimere! La repressione è il nostro vaccino! Repressione è civiltà!».

Elio Petri fu chiarissimo nel precisare i motivi che l’avevano indotto ad affrontare un tema delicato e pericoloso come quello dell’abuso di potere: «Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto venne certamente fuori dalla rabbia. Credo che in Italia ogni cittadino abbia, tuttora, molti conti da regolare con la polizia e con lo stato, se si pensa al contenuto persecutorio, punitivo dei nostri rapporti con l’autorità e i suoi rappresentanti. In quell’epoca la polizia continuava ad ammazzare, e personalmente ero d’accordo fino a un certo punto con Pasolini e la sua poesia sui poliziotti, perché da ragazzo ero stato una vittima sistematica di questi figli del popolo, ne avevo prese tante, senza mai ridarle. Allora ce le dovevamo tenere, zitti e buoni, conoscevo i loro bastoni e avevo visto e udito esplodere i loro mitra. Per una gran parte della mia vita io ricordo sulle strade italiane solo morti operai e morti contadini. Il film nasceva da un’idea che Pirro e io ci siamo più volte passati, l’idea dostoevskiana della sfida che un assassino faceva alla giustizia. Il personaggio divenne, poi, un poliziotto. È l’aver rovesciato un tabù, l’aver, cioè, preso un poliziotto come emblema di criminosità, che ha fatto di Indagine un film politico. Perché invece il suo lato più interessante riguarda la descrizione di un meccanismo interiore, che tutti portiamo dentro, quelli che il potere lo esercitano, e anche i sudditi. Ognuno ha la sua fetta di potere e tende a esercitarla in modo autoritario, poiché dentro di noi è disegnata una società repressiva che domanda continuamente una presenza paterna, facendo di tutti noi dei bambini. Per questo aspetto il film era uno studio di comportamenti sociopsicologici. Con questo non voglio diminuirne l’impatto politico, anzi voglio sottolinearlo, anche se molti critici extraparlamentari lo accusarono subito di essere una pellicola al servizio della polizia».

La bozza della sceneggiatura fu realizzata in pochi giorni. Il confronto tra Pirro e Petri produsse un testo ambizioso, sferzante, caratterizzato in ogni particolare da una ridondanza provocatoria, allusiva, bruciante. Il prezioso lavoro d’equipe che si era formato ai tempi di A ciascuno il suo fu la premessa per riprendere la collaborazione con Luigi Kuveiller, Ruggero Mastroianni e, soprattutto, con Gian Maria Volonté.

«Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto – raccontò Pirro – è nato dall’idea mia e di Petri di scrivere ancora un film con un buon ruolo per Volonté. Fu il suo giudizio entusiastico che ci fece decidere. Indagine nacque in un clima arroventato, in un momento di grande euforia politica, di grandi speranze, che entusiasmò sia Petri sia me. Insomma, il film non è proprio immaginabile in un epoca diversa, cioè dopo o prima del ’68. Anche per questo lavoro non fu un produttore affermato a darci il via. Daniele Senatore, così si chiama, aveva avuto solo qualche avventura in alcuni film in Inghilterra: tutto sommato era un produttore “sui generis”. Però fu lui a darci questo spazio, gli altri dell’industria titubavano. Durante le riprese ci furono diverse difficoltà finanziarie e se riuscimmo a ultimarlo fu anche merito di Marina Cicogna, che allora dirigeva l’Euro International».

Marina Cicogna, che aveva appena prodotto Metti, una sera a cena di Giuseppe Patroni Griffi e Uomini contro di Francesco Rosi, accettò di appoggiare il progetto che molti altri colleghi avevano rifiutato. Daniele Senatore – che secondo una leggenda metropolitana aveva utilizzato per il film il contributo finanziario del padre generale – non era in grado di “reggere” da solo l’intera produzione. 

La produttrice romana, scopritrice dell’attrice brasiliana Florinda Bolkan, ne era all’epoca anche la compagna. Il suo sostegno al film di Petri era l’occasione per offrire un ruolo alla sua pupilla. La Bolkan venne scritturata per la parte di Augusta Terzi e conobbe Volonté, che solo un anno prima aveva rifiutato alcune decine di milioni per figurare tra i protagonisti di Metti, una sera a cena.

Le riprese iniziarono alla fine dell’estate 1969. Gian Maria Volonté domina la scena. Il personaggio che gli hanno cucito addosso Petri e Pirro è l’assoluto protagonista di un dramma inedito in cui l’attore può dare fondo al proprio repertorio recitativo. Mentre sul set si rideva per gli insistiti richiami di Volonté ad Aldo Rendine, apostrofato con l’espressione «Panunzio!» (tormentone che farà una leggendaria presa sul pubblico), il clima dell’autunno caldo continuava a partorire scontri e duri confronti nelle piazze e nei luoghi di lavoro. 

«Erano da poco state ultimate le riprese – rivelò Pirro – quando ci fu l’attentato di Piazza Fontana. Iniziò una grande repressione verso tutte le formazioni di estrema sinistra e noi tememmo che il film potesse essere bocciato dalla censura, se non addirittura sequestrato dalla polizia. La sera in cui Elio finì il mixage io mi trovavo a una riunione dell’Anac con altri colleghi tra cui Zavattini, Monicelli, pare ci fosse anche Scola. Andammo insieme a vedere la prima copia e al termine il loro primo commento fu: “Andate in galera”. Ma erano entusiasti. Cominciarono le preoccupazioni, cercammo appoggi politici, facemmo vedere il film a Giacomo Mancini e ad altri onorevoli. In quel periodo c’era la crisi dei governo Rumor e tutti apparvero allarmati dal fatto che se il film fosse stato bloccato dalla magistratura – cosa che pareva loro più che probabile – sarebbe successo un mezzo quarantotto. Un paio di sere dopo mangiavamo con Visconti e discutevamo del film quando nel ristorante arrivò Gian Luigi Rondi. Era allarmato: pensava che se fosse nato un caso intorno al film sarebbe caduta addirittura la candidatura di Rumor, che in quel momento egli giudicava l’unico capace di affrontare le gravi difficoltà del momento. Fu Rondi, credo, a organizzare una proiezione per alcuni generali di Ps. La visione avvenne nella massima segretezza, in una saletta della Euro International. Alla fine della proiezione comparve Marina Cicogna per raccogliere i loro pareri, ma tutti, appena la scorsero, letteralmente fuggirono nel timore di essere ripresi dai fotografi».

Il Festival di Cannes del 1970 celebrò il valore della pellicola con la vittoria del Grand Prix Speciale della Giuria (presieduta dallo scrittore Miguel Ángel Asturias) e del Premio FIPRESCI. Nel 1971 il film collezionò ben quattro Nastri d’Argento: miglior regia, miglior attore protagonista a Gian Maria Volonté e due per il miglior soggetto originale alle due grandi penne di Elio Petri e Ugo Pirro; la loro sceneggiatura ebbe anche una nomination all’Oscar ed il premio ‘Edgar Allan Poe’ conferito dall’Accademia americana del poliziesco. Quest’ultimo premio lusingò Petri più dell’Oscar, perché stabiliva il valore della scrittura di un soggetto legato alla letteratura del mistero.

Alla quarantatreesima edizione della cerimonia di premiazione degli Oscar (15 aprile 1971), tra gli echi del trionfo di Patton, generale d’acciaio diretto da Franklin J. Schaffner, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto vinse come migliore pellicola straniera. Alla cerimonia di premiazione non si presentò nessun rappresentante della produzione, né il regista, né i protagonisti. 

Ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli (1970)

Nel novembre 1970 Ugo Pirro, in qualità di legale rappresentante del “Comitato cineasti contro la repressione”, presentò la domanda di revisione (n. 57282 del 24.11.1970) per la pellicola intitolata Ipotesi sulla morte di Pinelli. Il cortometraggio fu illustrato come il documento filmato in cui «un gruppo di attori ricostruisce le tre versioni date nel mese di dicembre 1969, da funzionari e agenti della Squadra politica di Milano, sulla morte dell’anarchico Pinelli. Ricostruisce anche la morte, avvenuta nel 1897, dell’altro anarchico Romeo Frezzi». La commissione ministeriale concesse il nulla osta per la proiezione in pubblico «a condizione che ne sia vietata la visione ai minori degli anni diciotto in quanto, ironizzando sulla ipotesi del suicidio dell’anarchico Pinelli e facendo intendere che lo stesso sia stato ucciso dalla Polizia, fomenta l’odio sociale (art. 9 D.P.R. 11.11.63 n. 2029) alla labile sensibilità dei predetti minori».

«Il comitato – specificò Pirro – nacque su iniziativa di Petri e mia quando, alla ricerca precipitosa degli autori della strage, le forze di polizia iniziarono una repressione a tappeto che investì indiscriminatamente tutti i gruppi extra parlamentari e che si estese successivamente anche contro gli operai in lotta».

Al Comitato parteciparono figure del peso artistico di Damiano Damiani, Nanni Loy, Gian Maria Volonté, Nelo Risi, Bernardo Bertolucci, Marco Bellocchio e un sessantaquattrenne Luchino Visconti. Il progetto iniziale prevedeva la realizzazione di un film in cinque parti che si occupasse della repressione in Italia e ponesse l’accento sul caso del misterioso suicidio di Pinelli. 

«Il 2 dicembre – rivelò Petri a Jean Gili – vi furono gli attentati di Milano e Roma: questi avvenimenti sono una grande chiave per comprendere tutto ciò che è accaduto in Italia dopo questa data. All’indomani del 12 molti di noi si erano resi conto che ci si trovava in un momento cruciale della storia del Paese. Con questo tipo di provocazione, di strategia della tensione, si era creata la possibilità di un ritorno della destra italiana. Secondo me la strategia della tensione è manovrata e provocata dalla Dc. In effetti il centralismo non ha ragione d’essere che in quanto equilibratore, censore e repressore degli estremismi. Stimolando e organizzando l’estremismo di destra, mettendo sullo stesso piano quello di sinistra, il centralismo giustifica la sua ragione d’essere. Nel quadro di un duro e libero affrontarsi fra estremismi, nell’affrontarsi reale della classe operaia e della borghesia, il centralismo non si giustifica più… Naturalmente il giorno successivo ai fatti la tendenza repressiva dello stato italiano si manifestò immediatamente: le inchieste seguirono solamente le piste in direzione dell’estrema sinistra.

Per reagire avevamo fondato un comitato di cineasti contro la repressione, che raggruppava sia quelli dell’Anac (Associazione Nazionale Autori Cinematografici) che dell’Aaci (Associazione Autori Cinematografici Italiani). Questo costituì il primo gesto unitario dopo due anni di scissione: sotto lo stesso organismo si riunirono di nuovo molti cineasti italiani, da Visconti a Bellocchio, ovvero tutte le generazioni presenti e attive in quel momento. Il comitato produsse immediatamente Documenti su Giuseppe Pinelli e, benché noi volessimo girare altri film, questa fu l’unica realizzazione fatta in queste condizioni. Il film fu terminato qualche mese dopo, credo nell’estate del ’70. Ci dividemmo in cinque gruppi di lavoro. I soli che riuscirono a portare a termine il progetto furono quelli di Nelo Risi e il mio. Gli altri tre raccolsero molto materiale ma non hanno mai raggiunto lo stadio della sintesi (avevamo una quantità di materiale sulla repressione contro i gruppi di sinistra, i marxisti-leninisti, Potere Operaio, Lotta Continua: tutta questa pellicola non è mai stata montata). La parte girata da Nelo Risi concerne esclusivamente Pinelli. È un’inchiesta autentica sulla sua figura, condotta con l’aiuto di chi l’ha conosciuto, di chi era presente in commissariato durante la sua detenzione. 

Al contrario ciò che ho girato io illustra le spiegazioni date alla polizia per giustificare la sua morte, il “suicidio”. Parto da scoperte molto semplici: tentiamo di ricostruire le versioni fornite dalla polizia. Essa ha dato nel medesimo tempo quattro o cinque, o anche sei o sette, versioni della morte. Per il film ne abbiamo prese in considerazione solamente tre, perché le altre erano più infantili, e abbiamo tentato di vedere se, materialmente, queste ipotesi della polizia potevano essersi verificate. Per questa ricerca della verità abbiamo preso una piccola stanza come quella del commissario Calabresi, vi abbiamo messo i quattro poliziotti che, secondo le indicazioni della polizia, si trovavano lì al momento in cui Pinelli si è gettato dalla finestra: abbiamo scoperto che era materialmente impossibile che un uomo potesse gettarsi dalla finestra in presenza di quattro poliziotti. Non abbiamo però detto che Pinelli era stato gettato giù… Il film era partito da un’idea che sicuramente utilizzerò per altre cose».

Il risultato è un mediometraggio di 45 minuti e 42 secondi. La prima parte (11’ e 10”), diretta da Petri, è intitolata Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli (o Ipotesi su Giuseppe Pinelli) e vede come protagonisti gli attori Gian Maria Volonté, Luigi Diberti e Renzo Montagnani. Volonté esordisce con la frase «Siamo un gruppo di lavoratori dello spettacolo. Ci proponiamo attraverso l’uso del nostro specifico comportamento degli autori, registi, tecnici, di ricostruire le tre versioni ufficiali avallate dalla magistratura sul presunto suicidio dell’anarchico Pinelli. Quest’ufficio rappresenta l’ufficio del dottor Calabresi, commissario aggiunto dell’ufficio politico della questura di Milano, collaboratore dell’organo ufficiale socialdemocratico La giustizia, collaboratore a Momento Sera. È stato in America per alcuni mesi dove si dice che abbia frequentato un corso speciale. Negli ambienti della sinistra milanese è noto come il commissario Cia. Le tre versioni che proponiamo, cioè quelle ufficiali avallate dalla magistratura, presuppongono che in quel momento Calabresi fosse assente dal suo ufficio». È ancora Volonté a chiudere: «Pino Pinelli, l’ultimo di una lunga serie di anarchici suicidi». La fotografia è di Luigi Kuveiller, il montaggio di Raimondo Crociani.

La seconda parte, Giuseppe Pinelli, realizzata da Risi, contiene interviste con Licia Pinelli, la moglie di Giuseppe, compagni ed amici. Alcune sequenze sono accompagnate dalle note di Lamento per la morte di G. Pinelli, composta e interpretata da Franco Trincale. Sui titoli di coda compare una scritta «I films realizzati nel 1970 dal Comitato Cineasti Italiani contro la Repressione in collaborazione con l’Unitelefilm furono curati rispettivamente da tutti gli aderenti al comitato per un’assunzione collettiva di responsabilità politica». Tra le sessantotto firme degli aderenti compare anche quella di Giuseppe De Santis. La pellicola fu distribuita attraverso i canali politici del Pci e del Movimento Studentesco. In Francia uscì con il film Angela Davis: ritratto di una rivoluzionaria di Yolande Du Luart.

La classe operaia va in paradiso (1971)

Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta circolarono numerosi documenti filmati sulle manifestazioni di protesta come Sciopero alla Fiat – Torino, 30 marzo 1968 di Gabriele Oriani (Cinegiornali Liberi, 1968), Cronaca della lotta operaia alla Rhodiatoce (Aamod, 1969), Ritorno a Battipaglia di Luigi Perelli e Giorgio Rambaldi (Pci – Unitelefilm, 1970), All’Alfa di Virginia Onorato (Pci – Unitelefilm, 1970), L’autunno continua a primavera di Giuseppe Bellecca (Pci, 1970). La cinematografia d’autore non si era avventurata nella complessità delle ragioni che animavano la produzione e la fabbrica. L’esperimento di Gregoretti ripercorreva le tappe della struttura documentaristica. Per chiunque sarebbe risultato azzardato il tentativo di costruire una sceneggiatura credibile per gli scioperanti e allettante per il pubblico in sala. Tenere unite le ragioni della protesta e le sacrosante aspettative artistiche appariva come un gioco senza soluzione. Restavano gli echi ottocenteschi di I compagni (1963) diretto da Mario Monicelli e, soprattutto, le roboanti durezze di Sciopero! (1925) di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn. Cose d’altri tempi. La sostanza forse era la stessa, ma la rabbia, adesso, era difficile da addomesticare.

«Innanzi tutto – ricorda Ugo Pirro – bisogna dire che noi di sinistra, effettivamente, non sapevamo un cazzo della fabbrica, o meglio, ci sfuggiva la vita degli uomini dentro la fabbrica, della catena di montaggio, della vita, dei ritmi di lavoro e dei loro ragionamenti. In effetti, chi c’era mai stato dentro una fabbrica? […]. Siccome non ci andava mai bene niente, fondammo un “Comitato cineasti contro la repressione”. Pagavamo tutto con i nostri soldi, la pellicola, lo sviluppo, tutto insomma, e decidemmo di seguire una lotta operaia alla Fatme, appena fuori Roma. Era stato appena licenziato un operaio e Potere Operaio aveva organizzato una lotta, con cortei intorno alla fabbrica, per farlo riassumere. […] Noi filmammo tutto, e pensammo che la storia di questo operaio (mi sembra si chiamasse Zimbelli) potesse essere una buona idea da raccontare al cinema. […] Il titolo l’ho inventato io e ti dico anche da dove l’ho preso, da un dramma teatrale dell’epoca della rivoluzione russa che s’intitola L’armata rossa va in paradiso».

L’idea era quella di provare a rappresentare il mondo della fabbrica, al di là delle rivendicazioni specifiche di quei giorni. Il clima incandescente suggeriva prudenza, c’era da spingersi lì dove nessuno aveva osato. Il confronto fra Petri e Pirro sulla costruzione della sceneggiatura fu serrato, ma estremamente produttivo. La collaborazione viveva ormai di meccanismi quasi perfetti. La scrittura si fece più attenta e studiata quando doveva modulare i dialoghi tra i rappresentanti sindacali, il personale e gli attivisti studenteschi. Le battute di Lulù Massa, i dialoghi con Militina (interpretato da Randone) e i confronti tra i compagni della fabbrica furono riscritti più volte come testimonia l’intera sceneggiatura provvisoria.  Definita la struttura narrativa e contattati gli attori principali il problema fondamentale della Euro International Films, rappresentata da Ugo Tucci, fu quello di trovare una fabbrica attrezzata per effettuare le riprese e scritturare un rilevante numero di comparse che ricoprissero i ruoli degli operai, dei manifestanti e degli studenti. A Novara, tra le aziende in sofferenza, creò grande clamore la vicenda della Ascensori Falconi, industria florida, ma messa in crisi dalle scelte della proprietà. Era stato Ottaviano Del Turco, dirigente della Fiom, a suggerire alla Euro International Films il possibile utilizzo dei locali della Falconi. Attivata una catena di montaggio, di cui la fabbrica era sprovvista, le riprese iniziarono alla fine di dicembre 1970 e terminarono solo nell’agosto 1971.

Il film acquisì il diritto alla proiezione in pubblico alla fine di settembre. Nello stesso mese al Cinema Vittoria di Novara fu organizzata una proiezione riservata a pochi invitati e ai dirigenti della Falconi, che volevano sincerarsi del fatto che il nome dell’azienda fosse totalmente assente nella pellicola. Ad ottobre la prima proiezione cittadina aperta al pubblico ebbe luogo al Teatro Faraggiana gestito da Bruno Marmo, che ricorda il dispiacere dei ragazzini esclusi dallo spettacolo atteso dall’intera città. L’affluenza fu copiosa tra la delusione delle comparse che si videro “vittime” dei tagli al montaggio.

Se una parte della critica ammetteva il valore di un’opera che avvicinava il grande pubblico alla dimensione quotidiana dell’operaio (fabbrica, casa, mensa), buona parte dello schieramento intellettuale militante bollò il film come una pessima rappresentazione dell’universo della fabbrica. L’ortodossia prevedeva che nulla violasse la necessità di promuovere, su ogni istanza privata, il primato delle psicologie collettive in movimento.

L’anteprima “ufficiale” coincise con la presentazione fuori concorso alla Mostra Internazionale del Cinema Libero di Porretta Terme, tenutasi dal 2 al 9 ottobre 1971. Nella località bolognese si consumò il celebre intervento del regista Jean-Marie Straub che aveva definito il film girato a Novara una “pellicola infame”, da bruciare sulla pubblica piazza impedendone la distribuzione.

La proprietà non è più un furto (1973)

Per il quarto film del loro sodalizio, Petri e Pirro hanno in serbo la teatralizzazione di un tema scomodo come quello del possesso, del denaro, dell’accumulo materiale. La questione del “ruolo sociale”, elemento cardine della cinematografia del regista romano, ha assunto i connotati della missione individuale. Ciascuno lotta, a proprio modo, per conseguire il personale tornaconto. Nell’Italia dell’improvvisazione e delle ristrettezze familiari, c’è chi si arricchisce, chi sputa sulla miseria, chi si cuce addosso le medaglie di un benessere opulento, calcolato, volgarmente ostentato. La proprietà, oggi come allora, è la rappresentazione plastica della distinzione nell’appiattimento verso il basso della società dei consumi. L’affrancamento sociale passa per il denaro e per la forza simbolica del suo potere. Il dramma del possesso consiste nella sua stessa premessa: l’obbligo di difenderlo ad ogni costo.

«Ciò che più aizzava la nostra immaginazione – specificò Pirro – era l’intenzione di offendere i proprietari, di irridere all’ansia del possesso fino a considerarlo una malattia della pelle, un prurito che poi nel film affliggerà Total il bancario, destinato a vivere quotidianamente in contatto fisico con il denaro degli altri. […] Cercavamo una struttura narrativa aperta in cui calare una recitazione estraniata alla maniera di Brecht, che spiazzasse lo spettatore. Il successo dei nostri film, invece di appagarci, ci rendeva provocatori, incuranti delle nostre contraddizioni. Il titolo che mi venne in mente spiega la nostra eccitazione di quei giorni privi di quiete; proposi, memore di Proudhon, La proprietà non è un furto, Elio vi aggiunse un più e il titolo del nostro progetto divenne La proprietà non è più un furto. […] Era tanta la libertà di cui in quel momento godeva il nostro cinema da sorprendere anche noi stessi. C’era da parte di molti autori il proposito di sfidare la censura, provocarla, ma fare addirittura un film sulla proprietà, quello no, era un gesto eversivo insopportabile, toccava qualcosa di duro che era dentro ognuno di noi, di cui non ci rendevamo conto del tutto».

«Quando osservo i bambini – spiegava Petri – sento che lo prima cosa che esprimono è la volontà di appropriazione, dicono subito “no” e “è mio”; il rifiuto e il possesso per poter appoggiare su qualcosa lo loro identità. Credo che il senso della proprietà nasca dai problemi del territorio; anche gli animali hanno dei legami molto forti con alcuni oggetti. In un certo senso il denaro è Dio: è il deus ex machina della nostra esistenza storica, per questo merita di essere conservato in luoghi (le banche) che somigliano un po’ alle chiese».

La sintesi programmatica dell’intero film è nell’assunto che ne illumina l’ispirazione: «L’egoismo è il sentimento fondamentale della religione della proprietà». La costruzione del racconto vede in Total, giovane impiegato di banca, il più determinato nemico del denaro. Il disprezzo, motivato dall’idea che la ricchezza sia il segnale di un’appropriazione indebita ai danni della collettività, si traduce nel disagio di maneggiare fisicamente le banconote. L’idiosincrasia del bancario assume la forma di una sorta di patologia nevrotica che lo induce ad architettare una battaglia segreta contro un macellaio, simbolo di uno sfacciato arricchimento personale. Total costruisce la sua missione criminale sottraendo al volgare antagonista tutti gli oggetti del suo successo commerciale.

Goffredo Lombardo, già produttore di Petri all’epoca di L’assassino e I giorni contati, decide di finanziare la distribuzione del film sulla scorta dei recenti successi del regista romano. La produzione sarà italo-francese e gestita da Claudio Mancini. La Titanus confida nella presenza di Ugo Tognazzi che Petri incontra a Torvaianica, dove entrambi passano alcuni mesi all’anno. Il cinquantunenne attore cremonese ha appena girato Vogliamo i colonnelli di Mario Monicelli e La grande abbuffata di Marco Ferreri, che lo ha impegnato a febbraio nel quartiere parigino di Auteuil. Il ventiseienne Flavio Bucci, arrivato nella capitale da Torino e molto legato a Volonté, ha già avuto un ruolo in La classe operaia va in paradiso. Petri decide di scommettere su di lui, cercando di sfruttarne l’espressione facciale unica e la recitazione di stampo teatrale. Bucci sa di doversi guadagnare con grande abnegazione il suo primo ruolo di protagonista, memore del faticoso esordio vissuto sul set novarese: «Er capoccione, così chiamavano Petri nel mondo del cinema. Corpo piccolo e testone enorme, che gli scoppiava di idee. Per me è stato come un secondo padre. Però, ammazza quanto me menava! Se ti vedeva un po’ stanco, o svogliato sul set, sapeva riempirti di pugni e bestemmie. Menava persino Volonté, che era più folle e più grosso di lui». Petri riservava un trattamento duro agli interpreti più giovani ed acerbi. Con Tognazzi le cose scorrevano più lisce: solo qualche suggerimento in nome di una naturale intesa artistica. Il ruolo femminile fu affidato alla ventitreenne Daria Nicolodi che aveva recitato nella Salomè (1972) di Carmelo Bene ed era compagna dello scultore Mario Ceroli.

Todo modo (1976)

L’odio serpeggiante segna profondamente la metà di un decennio esplosivo. Nel 1974, anno della strage terroristica dell’Italicus, Leonardo Sciascia pubblica Todo modo, il suo quinto romanzo con Einaudi. Si tratta di un giallo ambientato in luogo misterioso (e non identificato geograficamente), l’Eremo di Zafer, in cui il coltissimo don Gaetano organizza ritiri spirituali per ospiti di riguardo. Il titolo scelto si riferisce ad una frase con cui Ignazio di Loyola caratterizza il valore de suoi Exercitia spiritualia, trattato pubblicato in latino nel 1548 grazie alla traduzione di André des Freux (è solo del 1615 l’edizione con testo in spagnolo, lingua con cui era stata realizzata la prima versione). L’espressione più celebre dell’opera è, appunto, «Todo modo para buscar la voluntad divina» ovvero “Ogni mezzo per cercare la volontà divina”, frase che allude ad un’esperienza contemplativa di quattro settimane per arrivare a Cristo secondo un prezioso meccanismo di purificazione. Ignazio di Loyola sottolinea la necessità di associare esercizi corporali e progressioni dell’anima, nel tentativo di rimodulare la sconnessione dell’ordine emotivo. Preghiera e meditazione si intersecano in un inedito processo di isolamento e affidamento alle guide spirituali.

Il libro Todo modo racconta la misteriosa successione di omicidi che avvengono presso l’Eremo di Zafer, luogo che l’enigmatico don Gaetano ha convertito nel sacro teatro dei suoi ritiri spirituali. Gli ospiti della struttura sono personaggi influenti del mondo politico, clericale e imprenditoriale. Quando un pittore cerca rifugio allo Zafer assiste all’avvicendarsi dei luttuosi eventi e, in collaborazione con il procuratore Scalambri, tenta di dipanare l’intrigo.

Il romanzo di Sciascia accende le suggestioni immaginifiche di Elio Petri. Dopo due anni di lontananza dal set, Todo modo è un allettante richiamo. Il mistero si intreccia con le allusioni ad una natura perversa dell’esercizio del potere. L’odore di incenso permea le note nauseabonde di una depravazione latente, così come il gioco rituale della politica nasconde la degenerazione di una natura eversiva. «Credo – spiegò Petri nell’avvicinarsi al nuovo progetto – che tutti gli uomini di potere siano ridicoli, poiché vi è una forte e comica discrepanza tra il loro atteggiamento di superiorità e l’estrema fragilità del loro destino di uomini». La conflittualità tra immagine pubblica e vizi privati, tra moderazioni formali e dissacrazioni interiori, è un tema che Petri vuole cavalcare con l’assoluta anarchia narrativa che ha contraddistinto i suoi lavori più dichiaratamente provocatori. Per calarsi nella dimensione di mistero del romanzo e convertirla in chiave “politica” introduce una raffigurazione esasperata del potere cattolico, rappresentato da tutti coloro – uomini di chiesa, figure di partito, esponenti del capitalismo di Stato – che potessero mettere in scena la natura consociativa di una forza soffocante, spietata e inquietante.

Per enfatizzare la natura del suo obiettivo dichiarato, Petri introduce una sostanziale variazione rispetto al giallo di Sciascia. Rinuncia alla figura del pittore presente nel romanzo e mette al centro del racconto quella del Presidente M., un uomo apparentemente mite, arrendevole e morigerato. Il personaggio, al di là di ogni possibile prudenza di circostanza, è l’esatta rappresentazione del Presidente del Consiglio Aldo Moro. Il regista romano, sfidando l’inosabile, sferra il suo attacco diretto alla figura più eminente del potere politico governativo. La provocazione assume i toni dell’azzardo quando Petri consegna a Gian Maria Volonté le chiavi di una sfida dissacrante e mortifera. L’attore milanese, messi da parte gli antichi dissapori col regista, si trasforma in una sorprendente maschera tragica capace di ammantare di inquietante opacità l’intera raffigurazione di una classe dirigente corrotta e corruttibile, patologicamente asservita alla demagogia delle proprie ritualità consolatorie. Volonté diventa Moro, travolgendo con il suo acume artistico ogni possibile attenuazione dell’effetto scenico. 

Il film uscì il 30 aprile 1976. Un mese dopo fu ritirato dalle sale in seguito a una denuncia per vilipendio e la magistratura ne dispose il sequestro. Dopo una sentenza di assoluzione tornò in proiezione, finché la tragedia del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro (16 marzo-9 maggio 1978) rese Todo Modo ancora più scomodo e inopportuno, condannandolo di fatto a un’invisibilità assoluta. La Warner – che aveva firmato un contratto per la distribuzione del film all’estero – pur contando sul precedente successo di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, preferì non far uscire il film negli Stati Uniti. Petri dichiarò pubblicamente che il sistematico “boicottaggio” della pellicola era stato orchestrato da Dino De Laurentiis su sollecitazione di esponenti del partito di maggioranza.

Nell’articolo Nel film di Elio Petri vilipendio a Moro? presente sulle pagine del quotidiano La Stampa del 27 giugno 1976, lo stesso Sciascia ebbe modo di difendere la pellicola di Petri: «Todo modo è un film pasoliniano, nel senso che il processo che Pasolini voleva e non poté intentare alla classe dirigente democristiana oggi è Petri a farlo. Ed è un processo che suona come un’esecuzione… Non esiste una Democrazia Cristiana migliore che si distingua da quella peggiore, un Moro che si distingua in meglio rispetto a un Fanfani. Esiste una sola Democrazia Cristiana con la quale il popolo italiano deve decidersi a fare definitivamente e radicalmente i conti».  

Buone notizie (1979)

Nel 1979 Petri torna a rielaborare la stesura della sceneggiatura di Prima di morire. Il testo è tutto concentrato sulle dinamiche dell’esistenzialismo piccolo-borghese e sui risvolti comico-tragici della vita “in prestito”. Le parole concesse a Dacia Maraini nel 1973 sembrano echeggiare in una forma ancora più amara e categorica. Prima di morire raccoglie il disagio dei rapporti interpersonali nella chiave del “dover essere”, secondo le convenzioni di un’esistenza che si appiattisce sulle faticose concessioni in favore di aspettative automatiche e fredde dinamiche relazionali. Petri aveva parlato con chiarezza del fatto che «qualunque inibizione in campo sessuale è sbagliata ed è fonte di infelicità». Altrettanto sibillinamente aveva concluso che la peggiore conseguenza di un’educazione repressiva si manifestasse nel «fatto che lascia un conto aperto con la vita». La sublimazione di questo conto aperto trova nella formula dei desideri piccoloborghesi tutte le declinazioni della scissione nevrotica. Nella continua sovrapposizione di analisi e di appunti, l’elaborazione di Prima di morire si concentra sui comportamenti di un uomo impegnato a stabilire il suo ruolo (marito, maschio, lavoratore, soggetto sociale) rispetto ad una faticosa revisione del suo universo sentimentale ed edonistico. Se, per certi versi, Prima di morire servirà come supporto del soggetto Chi illumina la grande notte, costituirà altresì il nucleo centrale per una nuova sceneggiatura: La personalità della vittima

Il tratto comune che avvicina le due partiture cinematografiche è l’ossessione della morte, alimentata da una soffocante schizofrenia e segnata dalla percezione di un imminente complotto distruttivo. La definizione di vittima alberga nell’asfissiante sensazione di inadeguatezza rispetto alle continue richieste della consuetudine borghese, che vive di rappresentazioni schematiche e di pretese consolatorie. Il registro tragico-comico si innesca nella scissione psicotica della vittima. Se, per coronare la solennità di Chi illumina la grande notte, ha pensato senza riserve all’amico Mastroianni, per La personalità della vittima il regista si è concesso l’azzardo di coinvolgere Giancarlo Giannini, attore eclettico, ma specializzato in altro genere di ruoli. «Il nostro uomo è legnoso, burattinesco – spiega Petri nell’identificare il protagonista – come se egli portasse una corazza (Reich?): la corazza è rappresentata, nel film, dall’eterno vestito grigio del piccolo-borghese del Novecento, come certi personaggi di Magritte». Il parallelo artistico è calzante. L’uomo con la bombetta della Golconde – città indiana con ricchi giacimenti diamantiferi saccheggiati dall’ingordigia del colonialismo europeo – galleggia in aria come espressione mortifera dell’omologazione conformista.

Il lavoro sulla sceneggiatura induce Petri a considerare un elemento appena “maneggiato” con Le mani sporche e cavalcato polemicamente in La decima vittima: la televisione. La tv è lo strumento più compiutamente funzionale alle dinamiche estetizzanti del culto qualunquista. «La televisione – nota ferocemente il regista romano – fornisce estratti di vita inoculati non più per via endovena, ma per via anale, per supposte». La tv è un circuito chiuso di costruzioni artificiali, di modelli usa e getta, di anestetizzazioni rassicuranti e preconfezionate. Il titolo della sceneggiatura volge in Buone notizie (La personalità della vittima rimarrà come titolo di lavorazione) alludendo alla sarcastica prefigurazione di un universo di immagini somministrate come un farmaco lenitivo, per sanare la comparsa di ogni possibile frustrazione. 

La sceneggiatura finale di Buone notizie prevede, come figura principale, quella di un funzionario televisivo di cui non viene citato mai il nome. Per il ruolo centrale Petri si rivolge al trentaseienne Giancarlo Giannini. L’attore spezzino, dopo essersi calato nelle brillanti caricature di Lina Wertmüller, viene da tre ruoli drammatici: L’innocente di Luchino Visconti (1976), Viaggio con Anita di Mario Monicelli e La vita è bella di Grigorij N. Cuchraj (1979). Petri lo sceglie come protagonista anche ragionando su questioni meramente anagrafiche: «Ero molto in forse sull’impostazione del film come storia di un cinquantenne. Mastroianni avrebbe potuto sembrare un uomo alle soglie della vecchiaia e impaurito dalla morte. Un uomo sui quaranta è più chiaramente vittima e malato».

Le riprese avvengono nell’estate del 1979 e terminano all’inizio dell’autunno. Se, a prima vista, Buone notizie allenta la morsa polemica diretta al sistema per concentrarsi sulle sconnesioni di un puro racconto surreale, la grottesca rappresentazione di una vicenda privata nasconde tutta la solennità di uno schiaffo derisorio rivolto ad una società pericolosamente malata. Il funzionario rigido e metodico che asseconda la mercificazione del video-catastrofismo, fornito come un narcotico popolare, è la perfetta rappresentazione di un cinismo classista indifferente alle più elementari rivendicazioni sociali. L’uomo-Giannini, chiuso nel suo ozio dorato, ammette placidamente la sacrosanta liceità di ogni privilegio (i favorevoli scatti di anzianità) riservato ai dirigenti. Il tema politico, spogliato di ogni tenore drammatico, echeggia tra le allusioni di un lassismo generale ammesso come una concessione necessaria in favore del mantenimento dello status quo.

È lo stesso Petri a chiarire la natura di questa insospettabile combinazione attitudinale: «Io più avanti vado nel mio lavoro, ossia più invecchio, e più mi soprendo di guardare ai personaggi che chiamo in vita come a dei “pazienti”. Anche il personaggio di Buone notizie è un paziente (…) il nostro uomo è tanatofobico. E non perché ami la vita. Ossia: alle sue intermittenti crisi di tanatofobia non corrisponde alcun accesso, se così si può dire, di biofilia: egli non ama la vita, anche se teme la morte. Quest’uomo non ha una filosofia. Nessuna merce ha, in sé, alcuna filosofia e quest’uomo vive alla stregua di una merce. Per conseguenza come tutte le merci ha paura dell’avaria, del deperimento, della dissoluzione».

Lavori per il cinema (scheda riassuntiva)

Regista e cosceneggiatore

Nasce un campione (1954) – cortometraggio

I sette contadini (1958) – cortometraggio

L’assassino (1961)

I giorni contati (1962)

Il maestro di Vigevano (1963)

Peccato nel pomeriggio (1964), episodio di Alta infedeltà 

La decima vittima (1965)

A ciascuno il suo (1967)

Un tranquillo posto di campagna (1968)

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970)

Documenti su Giuseppe Pinelli (1970), episodio di Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli

La classe operaia va in paradiso (1971)

La proprietà non è più un furto (1973)

Todo modo (1976)

Cosceneggiatore

Roma ore 11 (1952) di G. De Santis  – non accreditato

Un marito per Anna Zaccheo (1953) di G. De Santis

Donne proibite (1954) di Giuseppe Amato

Giorni d’amore (1954) di Giuseppe De Santis

Quando tramonta il sole (1955) di Guido Brignone

Uomini e lupi (1957) di Giuseppe De Santis

Un ettaro di cielo (1958) di Aglauco Casadio

La strada lunga un anno (1959) di Giuseppe De Santis

Le notti dei teddy boys (1959) di Leopoldo Savona

Il treno senza orario (1959) di Veljko Bulajić

Vento del sud (1959) di Enzo Provenzale

L’impiegato (1960) di Gianni Puccini

La garçonnière (1960) di Giuseppe De Santis

Il gobbo (1960) di Carlo Lizzani

Nudi per vivere (1964)

Cosoggettista

Giorni d’amore (1954) di Giuseppe De Santis

Quando tramonta il sole (1955) di Guido Brignone

Uomini e lupi (1957) di Giuseppe De Santis

Le notti dei teddy boys (1959) di Leopoldo Savona

Il carro armato dell’8 settembre (1959) di G. Puccini

L’impiegato (1960) di Gianni Puccini

La garçonnière (1960) di Giuseppe De Santis

L’assassino (1961)

I giorni contati (1962)

Alta infedeltà (1964) – episodio Peccato nel pomeriggio

La decima vittima (1965)

Un tranquillo posto di campagna (1968)

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970)

La classe operaia va in paradiso (1971)

La proprietà non è più un furto (1973)

Regista, soggettista e sceneggiatore unico 

Buone notizie (1979)

Aiuto regista

Roma ore 11 (1952) di G. De Santis  – non accreditato

Un marito per Anna Zaccheo (1953) di G. De Santis

Giorni d’amore (1954) di Giuseppe De Santis

L’impiegato (1960) di Gianni Puccini