Televisione

Gli spot per Shell e Salvarani (1966-1969)

Le atmosfere glamour di La decima vittima non garantirono un grande successo al botteghino, ma mostrarono la confidenza di Petri con la materia fantascientifica. La hit parade cinematografica del 1965 aveva ampiamente premiato le atmosfere western di Per qualche dollaro in più di Sergio Leone (circa tre miliardi e mezzo di incasso) e ben tre pellicole dedicate all’eroe Ringo. James Bond col volto di Sean Connery e le evoluzioni spettacolari del fantaspionaggio continuavano ad agitare le folle. 

Gli azzardi futuristici di Petri non passarono inosservati. L’idea di aver introdotto la spettacolarizzazione televisiva tra le prodezze eroiche della caccia all’uomo attirò la curiosità dei pubblicitari. Allora era in voga la moda di affidare a registi conosciuti le seguitissime rappresentazioni di Carosello. Restano nelle memorie gli slogan “chi può dirgli di no?…” realizzata nel 1964 da Valerio Zurlini per la Lebole o le invenzioni di Luciano Emmer messe al servizio di Agip e della brillantina Linetti. 

Molti nomi eccellenti del cinema furono ingaggiati per regalare tracce della loro genialità ai prodotti commerciali offerti al pubblico italiano: Age & Scarpelli, Luigi Magni, Gillo Pontecorvo, Corrado Farina, Ermanno Olmi, Sergio Leone, Ugo Gregoretti, Pupi Avati, Pier Paolo Pasolini, Federico Fellini.

Petri fu contattato dai pubblicitari della Shell per alcune brevi storie in chiave fantascientifica. Dopo molte remore decise di accettare la proposta. Nel 1966 completò le riprese e realizzò Al di là della mente (Le storie del futuro), un corto di due minuti e diciassette in cui in cui «la paladina dello spazio si sta preparando per una nuova pericolosa missione». Lo scopo era quello di esaltare le qualità di una benzina che garantiva «una ventata di accelerazione». «SuperShell A – sentenziava il bravo Renzo Palmer alla fine dello spot – tira fuori tutta la potenza nascosta nel vostro motore. Così! Così! Così». La voce dell’attore accompagnava nel finale il passaggio di alcune Alfa Romeo Spider Duetto “Osso di seppia” in cui le ragazze vestite di bianco sventolavano le bandiere SuperShell A, trionfando sulle rivali vestite di nero in rappresentanza di SuperShell senza A.

Fu lo stesso Petri, all’inizio degli anni Ottanta, a raccontare l’esperienza nella pubblicità bissata con gli spot per le cucine Salvarani nel 1969.

«Sì, confesso, ho fatto anche i ‘caroselli’. Quante volte? Due sole volte. Peccato veniale, mortale? Chissà. Fu dopo La decima vittima, che piacque molto a Milano. La decima vittima aveva qualcosa, non so, nel colore, nella scelta, nell’arredamento o in altro, che mandò in visibilio i pubblicitari milanesi. Nord è sinonimo di capitalismo, da noi. I ricconi del nord non si sono mai interessati di cinema non fosse che per ragioni sessuali. Alcuni di essi si lasciarono incastrare da produttori romani attirati dalle gonnelle di qualche bella attrice. Ci lasciarono le penne tutti, in un modo o nell’altro. Per il cinema e i cineasti, la gente coi soldi, dislocata soprattutto lassù, ha sempre manifestato diffidenza, per non dire disprezzo, anzi diciamolo. Ma con l’avvento della televisione, per fare la pubblicità dei loro prodotti, gli ‘industriali’ dovevano pur rivolgersi a professionisti dell’immagine filmata e volevano i migliori, anche per una forma di snobismo, per poter dire: ‘Quello là, gli ho fatto fare il mio carosello’. Io sapevo che molti registi giravano ‘caroselli’ nei momenti di magra. Anzi, a dir vero, alcuni non facevano altro, essendo la loro vita cinematografica null’altro che un lungo periodo di magra. Certi registi, rigorosissimi nella scelta d’un film, tanto da diventare sterili o mùtoli nel cinema, davanti al lucroso anonimato offerto loro dalla pubblicità, avevano rivelato una fertilità quasi balzachiana. Tra questi Balzac del “carosello” si annoveravano, allora, nomi assai prestigiosi, di uomini da me assai stimati. E quando, dunque, mi offrirono di girare dei “caroselli” per la Shell, dopo qualche esitazione, sulla scia dell’esempio di questi amici, anzi compagni, accettai. Devo dire che accettai anche perché la persona che venne a offrirmi quel lavoro era molto interessante. Si chiamava Mario Belli ed era, in quel momento, il creativo d’una delle società pubblicitarie più potenti. Una specie di sacerdote del messaggio pubblicitario. Faccia da boxeur, erre padana, linguaggio post-freudiano, roba da Trento, abiti da prete: m’incantò. Erano “caroselli” di fantascienza. Gli ‘ottani in più’ erano rappresentati da super-donne tutte vestite di bianco. Le benzine normali, il ‘nemico’, erano super-donne tutte vestite di nero. Furono dieci filmini che mi costarono una fatica immensa. […]Faticai molto, moltissimo, anche se mi dettero, per girare, tanti mezzi quanti mai ne avevo avuti nel cinema. Ma feci una tale fatica, a causa della mia cattiva coscienza, e del mio masochismo, travestito da passione artigianale, che giurai a me stesso di non fare più “caroselli”. Invece, quando, due anni dopo, il prete Belli tornò alla carica, a mani giunte, per offrirmi quattro “caroselli” per conto d’una ditta mobiliera padana, non seppi dire di no. Belli disse che solo io potevo aiutarlo, che faceva appello proprio al mio paranoico senso del dovere perché gli risolvessi una situazione molto compromessa. Alle mie obiezioni circa la disonestà, in sé, di fare la pubblicità, di indurre, cioè, i telespettatori con mezzi del tutto arbitrari, approfittando della loro privacy, a comprare cose del tutto inutili, Belli rispose dicendo che il cliente, quella volta, era un vecchio artigiano, che gli oggetti erano di prima qualità, eccetera […]. Da allora, ossia da più di tredici anni, ho sempre rifiutato di fare la pubblicità. Alcuni dei miei colleghi, mi pare di sentirli, mi accuseranno di moralismo. Beh, io credo ci sia un limite anche alla malafede. Il regista che coi film fa professione di idee marxiste, leniniste, staliniste, maoiste, castriste, guevariste e che poi, di soppiatto, si mette a fare la pubblicità per qualche monopolio della chimica o, poniamo, dell’automobile, deve sapere che il suo comportamento è proprio sbagliato: prima di tutto dal punto di vista della correttezza professionale, e poi da quello della correttezza politica, che sono la stessa cosa. Non basta dirsi che i soldi dei “caroselli” servono ad aspettare il “buon” film. Per vivere, meglio un brutto “western” che una “deliziosa” serie di “caroselli”. Tra l’altro, alcuni di questi registi devono rendersi conto che il “delizioso” linguaggio dei “caroselli” rimane spesso anche nelle macchine da presa con le quali girano i propri film».

Le mani sporche (1978)

Accanto all’ampia letteratura di progetti mai realizzati, le ultime stagioni, quelle seguite alle disavventure di Todo modo, sono caratterizzate da lavorazioni giunte a compimento. 

La prima è quella relativa ad un adattamento televisivo dell’opera teatrale Le mani sporche (Les mains sales) scritta da Jean-Paul Sartre nel 1948. Hugo, dopo aver scontato due anni di prigione per l’uccisione del leader del partito Hoederer, raggiunge Olga per proteggersi dai compagni politici che vogliono vendicarsi di lui. La mediazione della donna permette all’ex galeotto di ottenere ascolto, da parte dei membri del partito, sul reale svolgimento dei fatti che hanno condotto alla morte del capo politico. La ricostruzione dei passati avvenimenti e le testimonianze dei protagonisti ricompongono un complesso quadro di relazioni personali e prospettive individuali, fino a dipanare l’intricata matassa.

Per volere dello stesso Sartre, la rappresentazione dell’opera fu concessa in pochi casi per non incorrere in strumentali polemiche politiche rispetto all’identificazione effettiva dei suoi personaggi. L’intellettuale francese voleva valutare con attenzione, nazione per nazione, il rischio di consegnare il suo racconto in contesti in cui fosse più pericoloso “turbare” il quadro politico nella ricerca di specifiche attribuzioni di “colpe” e “responsabilità” all’interno di reali contesti di partito. Per Sartre la prospettiva “individuale” doveva prevalere su qualsiasi speculazione ideologica. Les mains sales era il pretesto per sviluppare un complesso di identità psicologiche messe in luce attraverso l’affioramento di desideri personali e ambizioni private. «Ogni personaggio – spiega l’autore – non sarà che la scelta di una via d’uscita e varrà la via d’uscita scelta. In un certo senso, ogni situazione è una trappola per sorci: muri da ogni parte. Ciascuno, inventando la propria via d’uscita, inventa se stesso».

Con tali premesse, le autorizzazioni di Sartre per la rappresentazione del suo dramma sono rare. Dopo la prima messa in scena al Théâtre Antoine di Parigi del 2 aprile 1948 (regia di Pierre Valde e collaborazione di Jean Cocteau), l’opera giunge in Italia in due occasioni: il 26 gennaio 1949 al Teatro Odeon di Milano per la regia di Alessandro Brissoni (Luigi Cimara, Leonardo Cortese, Margherita Bagni e Arnoldo Foà tra i protagonisti) e il 24 marzo 1964 al Teatro Carignano di Torino con la regia di Gianfranco De Bosio (traduzione di Vittorio Sermonti) e l’interpretazione di Marina Bonfigli, Giulio Bosetti, Tino Schirinzi, Paola Quattrini, Gianni Santuccio e Antonio Salines.

L’unica trasposizione cinematografica dell’opera resta Les mains sales (1951, b/n, 103 min.) diretto da Fernand Rivers, con Daniel Gélin (Hugo) e Pierre Brasseur (Hoederer) nei due ruoli principali.

Per Elio Petri l’occasione di affondare le mani nella materia fertile dell’esistenzialismo sartriano è davvero ghiotta. Come puntualmente suggerito da Alfredo Rossi, l’attenzione che il regista romano dedica alla ricerca nei suoi ultimi anni è rivolta a «individuare, nel sé del Soggetto borghese, l’altalenanza del sublime e del comico». Non è più il cittadino ad agire, ma il soggetto in sé, in un’opera di analisi/autoanalisi, di accoglimento dei propri personalissimi desideri attraverso un «gioco della mascheratura» che faccia emergere le verità possibili dalle insidie della malafede e dai riflessi conformati (e conformisti) della verosimiglianza. 

In Scritti di cinema e di vita Petri chiarisce: «Per chi vuole, come me, raccontare le storie degli individui – e dei condizionamenti assoluti che essi trovano dentro di sé – senza mai perdere di vista i fenomeni sociali e storici e la loro direzione classista […] una lezione necessaria è quella di Sartre; il suo continuo sforzo di riportare l’esistenzialismo sulla terra […] la spregiudicatezza con la quale sa cogliere il vivo e il moderno in tecniche da altri respinte (penso al suo interesse per la psicoanalisi) hanno fornito un materiale di studio molto importante».

Petri ha le idee chiare sulle due figure emblematiche del racconto. «La purezza di Hugo ha l’opacità, la rigidità dei materiali grezzi ed inerti, perde tutta la trasparenza della purezza, dal momento che nasconde dietro di sé una soggettività indecisa, incapace di scelte, la tensione verso l’annullamento e la morte, il senso di vanità di tutto e, dunque, il desiderio inconscio che non vi sia progetto, che non vi sia socialismo, non vi sia futuro, che tutto muoia con lui. […]. Hoederer ha il suo progetto. Tutti i mezzi sono buoni, anche l’assassinio politico. Ma l’idea di morte compresa nella nozione di assassinio politico non è il fine del suo progetto, ciò che lo rende assurdo ne è soltanto un mezzo. La morte non fa parte della realtà del mondo. La sporcizia di Hoederer è trasparente, fino al punto da diventare purezza, e non nasconde nulla, e nel farsi tutt’uno con il progetto, e con la “purezza” del progetto, diventa essa stessa progetto. È un’impurezza che, scrollandosi di dosso l’idea di morte e di decomposizione, è diventata purezza».

Nel calore virile del suo essere personaggio verosimile e sessuato, Hoederer relega Hugo sotto la luce fredda della falsità, dell’inconcludenza sessuale e sentimentale. Questa prospettiva dualistica è la cifra fondamentale di un racconto che vuole mostrare l’esiguo confine tra realtà e finzione, tra realismo e metafisica, tra teatralità e simbolismo allegorico. Non è un caso se lo strumento per portare al pubblico la preziosa creazione di Sartre è quello della fiction, gioco creativo che per sua stessa natura decompone ogni istanza di verità in un ipnotico mosaico di possibili inganni.

Al quotidiano l’Unità (pagina 8 del primo aprile 1978) Petri dichiara la “forma” del suo progetto televisivo. «Io non farò di Le mani sporche un’analisi del delitto politico, perché l’opera non va vista in quel senso restrittivo; molto più interessante, piuttosto, è il dibattito tra realismo storico e misticismo estremistico. Cercherò di lavorare (visto che protagonista vera dell’opera è la malafede) con estrema malafede: dunque, in rapporto a Sartre, con estrema sincerità. E poi, al di là di ogni valutazione politica, Le mani sporche è un ottimo testo teatrale. E su questa teatralità imposteremo anche la riduzione televisiva. Il telespettatore non dovrà mai avere la sensazione di assistere a un teleromanzo: faremo di tutto per farlo sentire a teatro. Per questo l’inizio e la fine delle riprese avranno luogo al Gerolamo, uno dei teatri più piccoli d’Italia». Nell’articolo viene sottolineata la crescente discesa nel campo televisivo di famosi registi cinematografici come Marco Bellocchio, i fratelli Taviani e Marco Ferreri. «È un modo – spiega Paolo Valmarana, dirigente della Rete 1 – per confrontare alcuni testi storici del teatro, proponendo così una serie di trasmissioni di alto livello qualitativo e culturale». Il cast previsto ha come punta di diamante Marcello Mastroianni, esordiente in una produzione televisiva, nella parte di Hoederer. «Un personaggio – spiega l’autore nell’articolo – che amo molto, teatrale, di grande efficacia. E soprattutto un gran ruffiano. Forse rappresento meglio di altri attori la figura del borghese cinquantenne in crisi». «Mastroianni – ha detto di rincalzo Petri – è uno che, come me, si è sporcato le mani (come attore, naturalmente). Per trent’anni abbiamo creduto, sbagliando, di fare un cinema popolare».

Le mani sporche viene girato nello studio della CTC, nella periferia di Milano, tra l’8 aprile e il 20 giugno 1978. È durante la lavorazione del film tv che Petri apprende dell’uccisione di Aldo Moro. Secondo la testimonianza di Valmarana, il regista ne rimase così profondamente turbato da dichiarare che non avrebbe mai dovuto dare alla luce Todo modo. Le mani sporche fu realizzato per una durata totale di 234 minuti e trasmesso da Rai 1 in tre puntate il 14, 15 e 19 novembre 1978. 

«Che cosa può dare un regista di cinema alla tv? La spregiudicatezza, ma la tv non la vuole. I cineasti possono dare alla tv piuttosto un contributo intellettuale e politico che tecnico» specificò Petri mentre si muoveva sul set. La sua squadra era formata da Nando Forni (fotografia), Alberto Savi (luci), Filippo Corradi Cervi (scenografia), Barbara Mastroianni (costumi), Gianni Lari (montaggio), Renzo Vespignani (consulenza artistica), Nazareno Marinoni (delegato alla produzione). Le musiche furono composte da Ennio Morricone. 

Petri si occupò in prima persona della traduzione e dell’adattamento dell’opera di Sartre. Rispetto alla versione originale, introdusse due varianti sostanziali all’inizio e alla fine del dramma. La scena, infatti, si apre con Hugo che percorre il corridoio del teatro con una valigia in mano, fino a raggiungere il palcoscenico tra la sorpresa dei presenti. Un’inquadratura della galleria indugia sulla presenza solenne di un alto ufficiale militare, identificabile nella figura di Stalin. Il film si conclude con un’altra soluzione non prevista nel testo di Sartre: gli attori si affacciano dal palcoscenico verso il pubblico, raccogliendo gli applausi di una parte e la reazione di protesta della parte opposta. Il teatro rimane deserto dopo che l’ultima figura, quella di Stalin, abbandona il locale con le sembianze di un fantasma. Le due “invenzioni” di Petri avvengono all’interno del piccolo Teatro Gerolamo di Milano. Nel fascicolo realizzato dalla Rai per accompagnare l’uscita del film, Elio Petri sottolinea i temi della finzione e della malafede contenuti nel lavoro appena completato: 

«La regola del nostro gioco, con Le mani sporche, è semplice: si deve sottrarre il tele-spettatore all’idea che Le mani sporche sia “vera” in senso televisivo, nel senso del feuilleton televisivo, “vera” nel senso di “verosimile”, di “è proprio così che succede”, di “pare di starci”, “era proprio così”, nel senso di quella «letteralità» che è propria della messa in scena televisiva. Sartre ha scritto questa commedia sul filone della drammaturgia francese dell’Ottocento, senza pudore, o, s’egli preferisce, nella più completa malafede. I coups-de-theâtre abbondano, le situazioni sono portate al confine del più schietto artifizio, i conflitti personali sono costruiti su apparenze, anche se non verificabili, di quel “reale-reale” che tutti “fingiamo” di conoscere. Queste apparenze del “reale-reale” non interessano Sartre: sono puro pretesto, per l’edificazione dei suoi miti. A Sartre premeva di rappresentare la sua scissione in Hugo-Hoederer, in puro-impuro, soggettivo-oggettivo, in metafisico-realista, in vero-falso, gioco-serietà, e l’ha fatto con estrema lucidità “teatrale”, servendosi del teatro proprio come del mezzo più peculiare per rappresentare la falsità del suo, e del nostro, stato di scissione. Egli ha scritto ogni parola della commedia mettendosi continuamente “dentro” e “fuori” i personaggi e le situazioni, dotando lo spettatore della stessa possibilità, di entrare ed uscire dalla “realtà” che la commedia propone, per valutare, giudicare, “vivere” la disperata finzione di questa realtà, ricordandogli continuamente che tutto si sta svolgendo in un teatro, e sommuovendo in lui, tuttavia, il dubbio che tutto sia teatro, finzione, commedia, che tutto sia “falso”: che la vita stessa lo sia. Ma bisogna fingere che la vita sia significante, prima ancora di venire qui a teatro, in cerca di significati e sederci su questa poltrona. Si deve fingere di non sapere la morte. Si deve fingere che tutto quel che si fa sia “vero”. Si devono fingere idee prese in fitto, come costumi, da altri che a sua volta dovette fingere, pur di garantire una continuità alla vita, pur di negare la morte. Si deve fingere che natura e società siano la stessa cosa, che un decreto-legge sia come un tuono, che la disoccupazione sia come un’alluvione, che una guerra sia come un terremoto, o che il socialismo sia la quiete dopo la tempesta».

Il primo interprete a fare la sua comparsa è Giovanni Visentin (Hugo), attore friulano formatosi presso la Civica scuola d’arte drammatica sotto la direzione di Giorgio Strehler. Mastroianni (Hoederer) veniva dalle riprese di Ciao maschio diretto da Marco Ferreri. Gli altri ruoli principali furono assegnati a Anna Maria Gherardi (Olga), Pietro Biondi (Louis), Giuliana De Sio (Jessica), Omero Antonutti (Karsky), Massimo Foschi (Principe Paul), Bruno Pagni (Georges), Giorgio Trestini (Slick), Umberto Verdoni (Ivan), Ferruccio Caniero (Charles), Giovanni De Lucia (Frantz) e Ezio Sancrotti (Léon).

Elio Petri compare in una scena del film, mentre scende le scale dietro ad altri due interpreti e si congeda di fronte allo stesso Pietro Biondi, salutandolo con il pugno chiuso e rivolgendogli uno sguardo severo.

Nel 1989 il regista Aki Kaurismäki ha realizzato per la televisione finlandese Likaiset Kädet, la trasposizione di Les mains sales. Si tratta di una versione priva della raffinatezza presente nel lavoro di Petri e più concentrata sulla palpabile ironia che sottende un chiaro intento dissacratorio.

Lavori per la tv (scheda riassuntiva)

Al di là della mente (1966) – spot Shell

Tecnica sì, ma con sentimento (1969) – spot Salvarani 

Le mani sporche (1978) – miniserie tv