Teatro

L’ultimo atto: L’orologio americano (1980-82)

L’ultimo lavoro di regista giunto a compimento è l’allestimento teatrale di L’orologio americano (The American Clock) di Arthur Miller. Il drammaturgo newyorkese scrive il testo tra il 1979 e il 1980 e lo ambienta nell’America degli anni Trenta. La pièce si concentra sul clima angoscioso della Grande Depressione attraverso le dolorose vicende della famiglia Baum, caduta in disgrazia per gli effetti del crollo economico. Attraverso la voce degli interpreti prendono forma le intime ammissioni, che ricostruiscono un autentico dramma familiare nel passaggio dalla confortevole agiatezza di Manhattan fino al triste approdo a Brooklyn.

Grazie alla preziosa traduzione di Gerardo Guerrieri, Petri decide di allestire la prima europea. Senza farsi condizionare dai modesti riscontri di pubblico nelle rappresentazioni al Baltimore Theatre di Broadway (solo dodici repliche dal 20 al 30 novembre 1980 con la regia di Vivian Matalon), il regista romano coinvolge Dante Ferretti alla scenografia e Barbara Mastroianni ai costumi. Le musiche vengono affidate a Piero Piccioni. 

Il teatro scelto è il Duse di Genova. La compagnia messa in piedi dal regista romano è formata da Eros Pagni, Lino Capolicchio, Ferruccio de Ceresa, Claudio Gora, Camillo Milli, Benedetta Buccellato, Carla Signoris, Marzia Ubaldi, Ugo Maria Morosi, Franco Carli, Luca dal Fabbro, Marcello Cesena, Camillo Milli.

La prima viene offerta al pubblico la sera del 23 gennaio 1981 (foto pag. 185). Già nell’autunno precedente Petri ha reso pubblico il suo progetto. Il 9 ottobre 1980, a pagina 11 de l’Unità, l’articolo Con l’orologio di Miller non si arriva mai tardi di Maria Serena Palieri contiene un’intervista al regista romano. «Il “plot”, l’intreccio vero e proprio, secondo me è nel mutamento della società. Miller racconta di un uomo arrivato al giorno d’oggi che ricorda gli anni fra il ’29 e il dopoguerra; si trova in un casermone di Brooklyn, ma in origine proveniva dal cuore di New York, da Manhattan; il suo racconto rievoca alcune famiglie costrette a causa della Grande Crisi, come lui, a trasferirsi; sono dei nuclei cittadini forzati alla traversata dei marosi che accompagnarono la trasformazione del vecchio ordine del capitalismo in quello del consumismo. L’uso della memoria, la trasgressione fra l’ieri e l’oggi, è come Miller l’applica quasi sempre; la tematica invece è vicina soprattutto alle opere di maggiore respiro sociale, Il commesso viaggiatore o Il crogiuolo, per intenderci. Un uomo della mia generazione non può evitare di fare i conti con il grande mito americano del quale, tutta la vita, è costretto a cibarsi. È con questo, perciò, che mi confronto in primo luogo, attraverso un autore che è incredibilmente legato alla sua terra. La suggestione mi deriva soprattutto da un’analogia che Miller non dichiara apertamente, ma che io voglio leggere fra le righe: è quella fra la loro depressione, l’assistenzialismo, il New Deal e il nostro fascismo. Voglio dire che, nonostante le differenze superficialmente ideologiche, nella stessa epoca, ma in paesi diversi quali l’Italia e l’America, si sono verificate delle forme simili di intervento dello Stato. Assistenzialismo, intervento diretto nell’economia, corporativismo: sono una risposta sostanzialmente identica alla crisi del capitalismo. Le nostre tappe erano forzate, costrette al passo (che era in primo luogo il loro), ma ritengo comunque che sia possibile estendere a noi l’operazione che fa Miller: lui, di lì, getta uno sguardo sulla loro crisi attuale, quella del consumismo. Io cercherò di gettarlo sul nostro presente. Inconsciamente, forse, mi stimola la chiave di narrazione che è quasi cinematografica (di questo forse Miller non era consapevole) anche se mi sento spinto a rendere l’opera nel modo più teatrale possibile. A voler scavare ancora, c’è il ricordo di Visconti, di quelle che considero le sue rivoluzioni teatrali. Non necessariamente le messinscene milleriane: ricordo soprattutto la provocazione che fu A porte chiuse di Sartre; ma è probabile che io abbia scelto Miller proprio perché è stato lui a farcelo scoprire, che sia, insomma, un omaggio implicito, o meglio, una necessità autentica di confrontarmi con la sua presenza, ora che mi cimento col teatro. […]. È il modo di rispondere alla totale mancanza di divertimento che, negli ultimi anni, ho accusato come spettatore. Scelgo qualcuno che racconta esperienze vissute personalmente, con dolcezza, con saggezza, spesso con umorismo. Chiunque abbia un po’ di puzza sotto al naso dirà che Miller è datato. Secondo me è semplicemente un uomo generoso. Questo allestimento teatrale non esaurisce i miei progetti. In cantiere ho un film, sarà per aprile, posso anticipare il nome di Mastroianni, il protagonista, e il titolo: Chi illumina la grande notte. Ancora un giallo, ma non è semplicemente una mia ossessione; anche qui credo di rispecchiare l’attualità largamente sentita del mistero. Per la televisione, poi, curerò una serie di telefilm che andrà sotto il nome di Cronache italiane».

Le parole di Petri rivelano con chiarezza l’istinto a non cedere il passo ad una resa amara. L’ultima stagione è contrassegnata da umori variabili, da tentennamenti distruttivi, dalla presenza ingombrante di un vacuo istinto di morte. Il legame con la vita, quella dei piaceri personali e delle ambizioni professionali, è tutto nella “solenne” fedeltà ad un credo inesauribile che aleggia nell’aria più forte di ogni rassegnazione.

In una lettera scritta a penna, datata 19 marzo 1982 e inviata da Perugia, Petri si rivolge alla compagnia teatrale che sta portando in scena L’orologio americano di Arthur Miller. A pochi mesi dalla morte, nel momento in cui i disagi fisici travolgono mente e corpo, Elio non rinuncia ad esprimere le sue Ultimissime considerazioni, ingenue, ma solo apparentemente:

«Quel che più mi ha colpito nelle ultime rappresentazioni da me viste è il tono di “routine” emanante da ogni aspetto della messa in scena. Tutto è un po’ meccanico, dall’avvicendarsi delle luci che avviene, quando non è impreciso, con rigidità notarile, all’apparizione degli oggetti, spesso traballanti, alla recitazione degli attori, quasi sempre mero fatto professionale. Sembra, in certi momenti, che tutti mostrino una certa fretta di finire e di tornarsene alla loro vera occupazione, che li aspetta altrove. Non ho più visto e, quindi, vissuto con la compagnia, l’entusiasmo delle prime rappresentazioni, che era tale da fornire allo spettacolo una delle sue più serie basi di credibilità. Davanti a quella partecipazione lo spettatore non poteva dire altro che: “Se loro ci credono tanto, devo crederci anche io”. Senza questo elemento della vostra passione, L’orologio americano – come qualunque altro – può risultare uno spettacolo senza clima, senza atmosfera. In definitiva, uno spettacolo noioso: e non soltanto, non essenzialmente, in questo caso, per colpa del testo; ma per colpa esclusivamente nostra. Se si vuole raggiungere questo effetto abbiamo certamente imboccato la strada del sicuro successo. Quindi, complimenti. So che quel che accade risente, senza dubbio, dello stile puramente “amministrativo” e, di conseguenza, squisitamente “routinier” della nostra tournée. Ma perché lasciarsi influenzare dal disamore della burocrazia teatrale? In fondo, nessuno di noi è andato a cercare un impiego all’E.T.I., nonostante la crisi occupazionale. Ed ognuno, qui, rappresenta solo se stesso, il suo talento, le sue risorse di intelligenza, di generosità, la sua capacità di adattamento, che è anche dote artistica. Tutti assieme noi non rappresentiamo altro che la “compagnia”, ossia una società liberamente scelta. È, dunque, per rispetto di noi stessi che ogni sera dobbiamo sottrarci allo stile “routinier” dell’organizzazione: rispetto di noi stessi e degli spettatori.  Mi pare buona regola, se gli spettatori in sala sono pochissimi, e, comunque, meno del previsto, o del desiderato, o del meritato, che tutta la compagnia dia il meglio di sé. Quei pochi avventurosi che hanno lasciato le loro case, e il fuoco d’artificio televisivo, per venirci a vedere, sono veramente i nostri interlocutori elettivi, i più “reali” e meritano di essere trattati con particolare rispetto. Un solo spettatore in sala, poi, assume un tale rilievo, diciamo, “filosofico”, sulla rappresentazione, da dovergli portare l’acqua con gli orecchi. Questo unico spettatore è una figura altamente inconscia, poiché da solo assume proporzioni immense e degne di considerazione non puramente mercantile; egli diventa, da solo, anzi, è, il nostro prossimo: amarlo o odiarlo? Mi scuso per queste ultime digressioni moralistiche, soprattutto con i più giovani, che so preferirebbero essere orfani di padre. D’altra parte, discorsi d’un certo genere, come il presente, sembra non possano sfuggire il paternalismo: è il destino del nostro difficile rapporto. Che fare? Abolire i registi? Benissimo: ma il problema dell’entusiasmo con cui affronterete il nostro lavoro non verrebbe mai meno, anzi ingigantirebbe. Grazie. Prego. Vostro Elio».

Lavori per il teatro (scheda riassuntiva)

Regista teatrale

L’orologio americano (1980-82) – itinerante